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Il Cav. presidenzialista spacca un Pd già sull’orlo della crisi referendaria

25/03/2009

Roma. Nel Partito democratico qualcuno avanza il sospetto che il rilancio sul presidenzialismo sia solo un diversivo. “Una fuga in avanti”, la definisce Stefano Ceccanti, convinto che Silvio Berlusconi voglia aprire un dibattito sul presidenzialismo “per eludere il tema effettivamente in agenda, che è quello della legge elettorale, e cioè il referendum”. Eppure, a quanto riportava ieri la Stampa, Berlusconi sembrerebbe intenzionato a fare sul serio, come conferma la dichiarazione pronunciata ieri alla Camera da Fabrizio Cicchitto, durante il voto sul federalismo. “Questo progetto – ha detto il capogruppo del Pdl rivolgendosi ai deputati leghisti – è in un quadro più generale di riforma istituzionale, nel quale si deve bilanciare con il presidenzialismo”. Un appello che potrebbe trovare interlocutori attenti anche nell’opposizione.
Giusto ieri, commentando l’ultimo congresso di An e la nascita del Pdl, Giorgio Tonini si diceva convinto che il Pd dovesse “assecondare questo processo verso un bipolarismo fondato su due grandi partiti: dai regolamenti parlamentari alla legge elettorale al sistema istituzionale”. Lo stesso Ceccanti, del resto, non scarta affatto l’ipotesi presidenzialista. “La cosa migliore – sostiene – sarebbe regolarizzare quella sorta di presidenzialismo che di fatto già si è affermata attorno al presidente del Consiglio,  chiarendo il rapporto tra scelta della maggioranza e scelta del premier, conservando la figura di un capo dello stato con funzioni di garanzia e attribuendo anche formalmente al premier il potere di revocare i ministri e di chiedere al presidente della Repubblica lo scioglimento anticipato delle Camere”. Ma tutto questo, aggiunge, si potrà fare soltanto dopo la vittoria del Sì al referendum. E in merito la linea del Pd non è stata ancora fissata.
Due settimane fa si è tenuta una riunione riservata tra tutti i massimi dirigenti, ma la discussione, assicurano i presenti, è “rimasta aperta”. Dario Franceschini, che almeno in campagna elettorale intende usare appieno le tentazioni presidenzialiste di Berlusconi (“Se uscirà vincitore dalle europee farà cose inimmaginabili”, ha detto pochi giorni fa, riferendosi proprio a questo), sul referendum sembra orientato verso la linea del “Sì per la riforma”. Il ragionamento, per dirla con Pier Luigi Bersani, è che “la legge che verrebbe fuori dal referendum elettorale sarebbe tre volte pessima, ma quella che abbiamo è quattro volte pessima”. E questo è anche l’argomento dell’ala referendaria. Ma se la discussione nel partito è ancora aperta, una ragione c’è.
“La legge attuale l’abbiamo osteggiata e la vogliamo cambiare, ma quella che uscirebbe dal referendum sarebbe ancora peggiore”, dice il popolare Gianclaudio Bressa. “Se questa è una ‘porcata’, quella è una super-porcata”, gli fa eco il dalemiano Roberto Gualtieri. Il punto è il divieto di coalizione prodotto dal referendum, che secondo Gualtieri imporrebbe “un bipartitismo coatto in cui i due partiti maggiori si trasformerebbero in cartelli elettorali costruiti attorno  al leader, assecondando così una deriva presidenzialista e plebiscitaria che dobbiamo invece contrastare con forza”.
Al contrario di Gualtieri, però, Bressa è un convinto sostenitore del modello britannico, nonché tra i promotori di tutti i referendum degli anni Novanta per l’uninominale e il maggioritario, ma ancor più convinto del fatto che “il bipartitismo non si impone per legge”. Dunque, se il referendum serve a cambiare la legge elettorale “può essere utile”, ma “solo a questo fine”.
E’ qui che la discussione nel Pd è “rimasta aperta”. Il rapporto tra mezzi e fini. “Se il referendum non passa – sostiene Ceccanti – si dirà che la legge attuale, che tutti abbiamo criticato, è stata confermata dagli elettori. Mentre la vittoria del Sì apre la  strada alla riforma”. Dunque il Pd deve schierarsi per il Sì, per coerenza e per interesse. “Se la linea fosse quella del ‘Sì per la riforma’, bisognerebbe dire almeno per quale riforma”, obietta Gualtieri, sostenitore del modello tedesco (proporzionale e pluripartitico). “Altrimenti si lascerebbe l’iniziativa al comitato referendario, che ha idee chiare e rispettabilissime, ma che io considero in antitesi al progetto del Pd e all’interesse del paese”. E qui sta il problema che Franceschini ora deve affrontare, chiarendo finalmente in cosa consista il progetto del Pd e quale sia la sua visione dell’interesse del paese: un Pd a vocazione maggioritaria, in un sistema a vocazione bipartitica e presidenzialistica (all’americana); o un Pd federatore di un nuovo centrosinistra, in un sistema pluripartitico e parlamentare (all’europea). Perché quel sistema che per Tonini e Ceccanti, come fino a ieri per Walter Veltroni, tanto il Pd quanto il paese hanno interesse ad assecondare, per i dalemiani è invece il baratro da cui allontanarli. E non è questione di rivalità o rancori personali, che si possa risolvere con gli appelli all’unità, se non altro perché a favore del referendum stanno anche gli ulivisti di Arturo Parisi, mentre contrarissimi sono rutelliani, popolari e tutte le forze di quell’ipotetico centrosinistra che il Pd ora deve scegliere se vuole riformare o abbattere, una volta per tutte. (il Foglio, 25 marzo 2009)

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