Nel Pd tutti vogliono dialogare con Fini, ma litigano sull’argomento
Roma. Non è difficile capire la ragione che ha spinto Massimo D’Alema a raccogliere l’invito di Gianfranco Fini a una riforma condivisa delle istituzioni. Il presidente della Camera è infatti l’unico che finora abbia tentato sul serio di distinguersi da un Silvio Berlusconi apparso più forte che mai. Dunque è lì, almeno per ora, l’unica contraddizione interna alla maggioranza su cui l’opposizione possa fare leva. L’apertura di D’Alema, però, è stata seguita dalla netta chiusura di Dario Franceschini. “Questi ci portano per il naso due mesi sulle riforme e noi li lasciamo fare?”, ha detto a Repubblica il segretario del Pd. Ieri però ha precisato: “Non ci sottrarremo al confronto, ma la legislatura dura quattro anni”. Insomma, prima bisogna pensare alla crisi economica, e solo “dopo” (cioè dopo le europee) verranno le riforme.
La differenza tra Franceschini e D’Alema non riguarda dunque l’opportunità di dialogare con Fini, ma l’opportunità di riaprire proprio ora una discussione sulle riforme. A conferma del pieno accordo sul primo punto, sta anche il modo in cui il segretario del Pd ha confermato la sua intenzione di non candidarsi alle europee: “Farò come fa Fini, che è di destra ma è una persona seria, e siccome è incompatibile non si candiderà”. Un parallelo assai forzato – Fini riveste pur sempre una carica istituzionale – ma proprio per questo tanto più significativo.
Sulle riforme, invece, la freddezza di Franceschini deriva da due considerazioni. Innanzi tutto, non vuole ripetere l’esperienza di Walter Veltroni, con quella che Rosy Bindi definì “la prima campagna elettorale bipartisan della storia”. Ma soprattutto, Franceschini sa benissimo che sul merito delle riforme il suo partito è profondamente diviso. Anzi, si potrebbe dire che sia proprio questa la madre di tutte battaglie interne, l’irrisolta questione strategica attorno a cui si sono combattuti tutti gli scontri tra veltroniani e dalemiani, ulivisti e popolari, sostenitori del partito a vocazione maggioritaria e fautori di un nuovo centrosinistra. Una divergenza che non è mai stata apertamente affrontata, e che Franceschini non vuole certo far esplodere adesso, nell’imminenza di una difficile campagna elettorale, da cui dipendono peraltro tutte le sue chance di potersi ricandidare al congresso di ottobre. Quella discussione che Franceschini vorrebbe cacciare dalle porte della campagna elettorale, però, gli rientra dalla finestra del referendum bipartitista. “Del discorso di Fini raccoglierei la parte che D’Alema non ha menzionato, quella sul referendum”, dice per esempio l’ulivista Mario Barbi. “Il discorso di Fini è interessante perché disegna un sistema equilibrato – dice il veltroniano Stefano Ceccanti – ma c’è un punto decisivo su cui Fini e D’Alema non sono d’accordo, che è il referendum. Su cui ha ragione Fini”.
Per ora, com’è ovvio, Franceschini non può sbilanciarsi. “Il Pd discuterà e deciderà come votare”, si limita a dire. Sulla carta, però, nel Pd ci sarebbe una solida maggioranza contro il bipartitismo, che va dai dalemiani ai popolari, passando per i rutelliani. Ma tutti potrebbero convergere sulla linea del “Sì per riformare la legge”, con l’argomento che l’attuale sistema non va bene a nessuno, e che abrogarlo non significa accettare quello che emergerebbe dalla vittoria del Sì. E su una linea a vocazione moderatamente maggioritaria Franceschini potrebbe costruire un’alleanza tra tutte le correnti dell’ex Margherita (popolari, rutelliani, forse persino ulivisti) e Piero Fassino. E’ vero che l’ex segretario ds è tentato dall’idea di correre in prima persona per la segreteria, ma se le europee lanciassero la riconferma di Franceschini, assicurano i fassiniani, sarebbe difficile per lui non appoggiare un segretario di cui è stato tra i più fermi sostenitori. E così, a restare isolati sarebbero i dalemiani, e soprattutto Pier Luigi Bersani, al momento unico candidato al congresso, con il riformarsi della vecchia maggioranza veltroniana. E forse ancora più larga. “Se la scelta fosse tra un sistema bipolare e tendenzialmente bipartico – dice Barbi – e dunque per un Pd post-identitario e coalizionale, oppure per un sistema pluripartitico e proporzionale, e dunque per un Pd identitario, la scelta per la prima opzione sarebbe obbligata”. (il Foglio, 31 marzo 2009)
Mammamia che visione da Medioevo della politica! Dalemiani, Rutelliani, Popolari, Ulivisti, Fassiniani, veltroniani, quando si riuscirà a uscire da questi schemi e iniziare a parlare di politica tutto sarà decisamente meglio.
E’ proprio quello il difficile parlare di politica quando si tratta del PD di oggi. Dovresti vedere cosa sta succedendo con le primarie nella “disciplinatissima” Emilia-Romagna …