Il giovane storico che odia le “meta-discussioni” sul ricambio
Roma. “Se possibile, eviterei una meta-discussione sulla categoria di rinnovamento, e su quale rinnovamento rinnova più a fondo…”. Non ci vuole molto a capire che fosse per lui – Roberto Gualtieri, candidato del Pd alle elezioni europee nella circoscrizione dell’Italia centrale – le discussioni e le meta-discussioni che appassionano i giornali, le eviterebbe quasi tutte. Se fosse per lui, e se lui non fosse candidato. “Io credo semplicemente che il rinnovamento non si predichi agli altri, ma si pratichi in casa propria”, concede dopo una lunga pausa. Non c’è dunque da stupirsi se alle domande sulla crisi coniugale del premier, su veline e vallette – vere o presunte, effettive o meta-veline che siano – Gualtieri reagisce con una smorfia di sofferenza, nettamente percebile anche al telefono. “Si tratta di un fatto pubblico, che all’opinione pubblica, ci piaccia o no, interessa eccome”, si schermisce. “Proprio per questo, però, la domanda non è cosa dice il Pd, ma cosa fa il sistema dell’informazione”. Dunque ne possono parlare tutti, meno i candidati alle europee? “Non dico che un candidato o chiunque altro non abbia il diritto di parlarne. Ma non penso che sia un dovere”. Un candidato alle europee, semmai, deve parlare dell’Europa. E la domanda giusta, secondo Gualtieri, è questa: “Come mai oggi, mentre in tutto il mondo, dopo anni di dileggio, si rivaluta il modello sociale europeo, proprio le forze che quel modello hanno costruito e interpretato, e cioè le forze progressiste, si trovano in tale difficoltà, elettorale e politica, in Italia e non solo in Italia?”. Si potrebbe rispondere che in questi anni c’è stata l’egemonia neoconservatrice, ma per Gualtieri non è una risposta sufficiente. “Negli anni 90 la sinistra era al governo in quasi tutti i paesi europei e aveva appena contribuito in misura determinante a quel processo di unificazione che è ormai unanimemente considerato un baluardo fondamentale contro la crisi”. E dunque? “Dunque, proprio allora, io credo che le forze progressiste non abbiano saputo definire una politica comune che andasse oltre l’agenda di Lisbona, apprezzabile ma poco stringente, perché fondata sul semplice coordinamento delle politiche nazionali. E così abbiamo lasciato i singoli governi al bivio tra la solitaria difesa dell’economia mista, molto difficile a livello nazionale, e la chimera di un mercato e di una globalizzazione che avrebbero dovuto garantire automaticamente crescita, equità e sviluppo. Molti hanno scelto questa seconda strada, e i risultati li vediamo oggi”. Dunque, insiste, è dall’Europa che bisogna ripartire. E quando entra nei dettagli, dagli eurobond al fondo sovrano europeo, sembra quasi di sentire un’eco tremontiana. Impressione che comunque si allontana quando passa all’alternativa tra “un’Europa aperta” e “un’Europa-fortezza, che pensa solo a blindarsi contro gli stranieri”. Quarantadue anni, professore di storia contemporanea, potrebbe sembrare quasi un candidato della “società civile”. Tra le altre cose, però, Gualtieri è anche vicedirettore dell’Istituto Gramsci, membro della direzione del Pd e militante dai tempi del Pci. In breve, uno che si occupa di politica più o meno dall’età in cui ha cominciato a parlare. Al convegno di Orvieto da cui nacque il Pd, nel 2006, Gualtieri era uno dei tre relatori. E i giornali lo hanno già etichettato come il candidato di Massimo D’Alema, che venerdì parteciperà alla presentazione del suo programma elettorale. Ma basta una domanda sul referendum per capire che Gualtieri vuole mostrarsi disciplinato, però non nasconde come la vede. “C’è un tempo per la discussione interna e un tempo per l’unità – dice – ma se la linea è votare ‘sì’ per cambiare la legge, tanto più questa linea va sostenuta con una proposta che dica come la vogliamo cambiare, almeno”. (il Foglio, 6 maggio 2009)
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