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Un congresso omeopatico

30/09/2009

La prima impressione è che il Partito democratico veltroniano, figlio prediletto dello spirito del tempo, sia rimasto troppo presto orfano della sua epoca. Le ripetute evocazioni dello “spirito del Lingotto” da parte dei sostenitori di Dario Franceschini non bastano a ingannare la malinconia. Le sempre più rare sortite polemiche di Pierluigi Bersani non servono a ingannare la noia. Le costanti lamentele di Ignazio Marino non ingannano più nessuno e ormai paiono annoiare anche lui.
Franceschini, segretario uscente eppure costretto dai numeri nella scomoda posizione dell’inseguitore, sembra applicare alla conquista del partito le regole dell’amor cortese e della cavalleria errante. Appena terminate le vacanze estive, il 2 di settembre era a Benevento, dove si arrampicava sul tetto di un alto edificio assieme ai precari della scuola; appena sceso era già a Genova, con grembiule e vassoio, per servire umilmente tutti i diecimila tavoli della festa nazionale del Pd. Domenica scorsa, assieme a un manipolo di valorosi seguaci, cavalcava sotto la pioggia sino alle sorgenti del Po, inoltrandosi senza timori nelle terre infestate dalle orde leghiste, piantando il tricolore proprio nella tana del leggendario Umberto Bossi (che nella retorica franceschiniana sembra aver preso ormai a tutti gli effetti il posto occupato dal mago Frestone nella fantasia di Don Chisciotte). Di questo passo, entro il 25 ottobre, c’è da aspettarsi che sconfigga un drago e torni a largo del Nazareno in tempo per il telegiornale della sera, carico di gloria e pietre preziose.
Nel frattempo, Pierluigi Bersani ha partecipato a un paio di impegnativi convegni sulla crisi economica vicino casa, è intervenuto per telefono a un’importante iniziativa nel viterbese proprio all’ora della siesta e ha giocato oltre dieci partite a bocce in tutti i maggiori centri anziani del suo quartiere. D’altra parte, con lo stile riservato e discreto della sua campagna congressuale, Bersani può già contare sul 73,3 per cento nella provincia di Lecce (con il 50 per cento dei congressi scrutinati) e su 4824 voti in Calabria (pari al 74,6 per cento), dove Franceschini si ferma a 1501 voti (23,2) e Marino a 139 (pari al 2,2). Ma i sostenitori dell’allegro chirurgo non hanno perso per questo il loro invincibile ottimismo. “A Parigi: Bersani 9, Franceschini 3, Marino 40”, esulta su Internet il suo braccio destro, e già “candidato dei blog” alle primarie del 2005, Ivan Scalfarotto. “Un progetto chiaro: candidarsi contro Ségolène”, gli risponde una commentatrice impietosa.
Con tutto questo, nessuno sembra essersi particolarmente appassionato alla contesa. Più di ogni altra cosa colpisce infatti il contrasto tra le attese, le attenzioni e l’enfasi retorica che avevano accompagnato le primarie del 2007, appena due anni fa, e l’indifferenza mista a fastidio che le primarie del 2009 raccolgono nei sempre più rari articoli che quotidiani e settimanali dedicano all’argomento. E’ vero che anche le primarie del 2005, quelle che elessero Romano Prodi, furono oggetto di scherno da parte della grande stampa, fino al giorno in cui quattro milioni di italiani ne risvegliarono l’attenzione. Ed è anche vero che alle primarie del 2009 non siamo ancora arrivati, stiamo ancora parlando del “congresso degli iscritti”, e in teoria nulla permette di escludere che nelle due settimane che intercorrono tra il congresso dell’11 ottobre e le primarie del 25 si assista a un generale risveglio dell’attenzione da parte dei mezzi di comunicazione. Ad ogni modo, tanto nel caso del 2005 quanto in quello del 2007, i critici giustificarono la propria diffidenza con la mancanza di una “vera competizione” e di una “battaglia aperta”, caratteri indispensabili per parlare di “vere primarie” e prenderle sul serio. Arrivate ora anche la “vera competizione” e la “battaglia aperta” tra i candidati, il responso degli osservatori è stato unanime: primarie siffatte risultano tremendamente noiose, la battaglia interna distoglie i candidati dai gravi problemi del paese, il dibattito si è fatto autoreferenziale e iniziatico, e comunque sia, dinanzi alla crisi economica e alle malefatte del governo, è mai possibile che i dirigenti del Pd pensino solo alla battaglia congressuale e alla loro sciocca competizione interna?
Qui però bisognerebbe aprire una lunga parentesi, per dire una buona volta che “primarie vere” e dall’esito realmente incerto, come per fortuna non sono queste, il Partito democratico non sarebbe tecnicamente in grado di svolgerle. Le elezioni sono una cosa seria e terribilmente complicata. Richiedono migliaia di matite, registri, scrutatori, rappresentanti di lista, commissioni di controllo, organismi di garanzia, supervisori, circolari, pubblici ufficiali, tribunali, prefetti. Se davvero il 25 ottobre andassero a votare milioni di persone in tutto il territorio nazionale e l’esito dipendesse realmente da poche migliaia di voti, c’è davvero qualcuno disposto a credere che nel giro di ventiquattro ore l’organizzazione del Pd – dicasi: l’organizzazione del Pd – sarebbe in grado di assolvere a tutti questi compiti, come fosse il ministero degli Interni? Ma se già adesso, quando a votare sono i semplici iscritti, che sono pochi e regolarmente registrati nei diversi circoli, si susseguono le accuse di brogli tra i diversi candidati, cosa bisognerebbe aspettarsi all’indomani di “primarie vere”? Uno scenario afgano è soltanto la migliore delle ipotesi, con lo spoglio che si protrae per settimane, tra denunce di irregolarità, crisi istituzionali e minacce di guerra civile.
Un ampio distacco tra i candidati è l’unica possibile assicurazione contro il rischio che il segretario del principale partito di opposizione sia deciso da una sentenza del Tar. D’altra parte, il venir meno di ogni incertezza sull’esito ha finito per atrofizzare la competizione, imbalsamando tutti i protagonisti del dibattito in un ruolo prefissato. E togliendo al sistema dell’informazione il suo gioco preferito degli ultimi due anni. Walter Veltroni è tornato alla letteratura, i giornali della Fiat hanno altri problemi e Repubblica si è ormai da tempo rassegnata a fare da sé: le sue pagine sono piene solamente di racconti a luci rosse, foto ammiccanti e interviste a prostitute di bassissimo bordo per un verso, e per l’altro di appelli alla mobilitazione, raccolte di firme, assemblee e manifestazioni di cui Repubblica è al tempo stesso il promotore, l’oggetto e il mezzo di comunicazione. Singolarissimo impasto di retroscena hardcore e bollettini di propaganda, il giornale della borghesia progressista si è così gradualmente trasformato in uno strano incrocio tra Lotta Continua e Playboy.
Nonostante questo, la sua egemonia sulla sinistra è arrivata al punto da non avere più nemmeno bisogno della mediazione del Pd. Su tre giornali di area, considerando che il quarto è la stessa Repubblica, tre sono diretti da ex giornalisti del gruppo: Concita De Gregorio (l’Unità), Antonio Padellaro (il Fatto), Antonio Polito (il Riformista). Ma forse bisognerebbe dire piuttosto che è la debolezza del Pd ad aver reso il partito drammaticamente innecessario, e non solo nel campo dell’informazione.
E così, mentre Scalfarotto si entusiasma per il 45 per cento di Marino a New York (Bersani 30, Franceschini 25), si capisce perché questo congresso appaia tanto noioso: semplicemente perché la sua discussione, e più in generale tutta l’azione del partito da diverso tempo a questa parte, corre perfettamente parallela alle vicende della politica italiana e internazionale, non incontrandole mai in nessun punto. E se il ruolo dell’opposizione di sistema è stato assunto da un quotidiano, più sorprendente ancora è che il ruolo dell’opposizione sul terreno politico, parlamentare e di governo sia stato assunto dal presidente della Camera. E dal ministro dell’Economia.
Incapaci di uscire dal vicolo cieco dell’innovazione permanente, che ha fatto terra bruciata attorno al Pd di ogni minimo spazio di manovra sul terreno parlamentare, economico, sociale ed elettorale, tutti i dirigenti del Partito democratico hanno di fatto pubblicamente rinunciato a fare politica. La differenza tra le pochissime, elementari correzioni di rotta timidamente suggerite da Bersani e la pertinace furia autodistruttiva che sembra animare la mozione Franceschini, a ben vedere, si deve più alla rassegnata accettazione di quei ruoli prefissati di cui si diceva che al merito delle rispettive posizioni. L’uno rassegnato a ereditare l’inestricabile groviglio di contraddizioni e ben attento a non strapparne il più piccolo filo, l’altro rassegnato a perderlo per sempre e perciò tanto più ostinatamente deciso a tirare fino all’ultimo con tutte le sue forze, né l’uno né l’altro paiono minimamente attraversati dal pensiero del futuro, e nemmeno del presente. Usciti di soppiatto dal terreno della politica e ormai ignorati da tutti gli attori sociali – sindacati e industriali, intellettuali e lavoratori, élite e popolo – non sembrano avere alcuna fretta di farvi ritorno. E le polemiche sul “compagno Fini” o sul “Tremonti di sinistra” dovrebbero far riflettere non tanto per quel che dicono di Gianfranco Fini o di Giulio Tremonti, ma per quel che dicono della sinistra italiana. E così, nei giorni in cui il congresso del Partito democratico giunge alla sua fase conclusiva, due notizie s’impongono all’attenzione dell’osservatore: il rinvio a giudizio di Giovanni Consorte, che andrà a processo per la scalata Unipol-Bnl del 2005, e la prolungata latitanza di Walter Veltroni da una discussione congressuale di cui rappresentava in realtà l’unica ragion d’essere.
Non è il caso d’intrattenersi qui sul rapporto tra i due fatti. Se non altro si potrebbe dire che entrambi ci parlano in qualche modo dell’Italia futura, all’indomani di quella crisi economica che ha scosso tante certezze consolidate. Molti luoghi comuni sono caduti in questi mesi dall’albero della storia come frutti troppo maturi – per non dire marci – a proposito del rapporto tra economia e politica, stato e mercato, persona e società, lasciando al congresso del Partito democratico il non facile compito di arrangiarsi con la marmellata che ne è rimasta.
Per questa ragione, almeno sin qui, tutti i protagonisti del dibattito non hanno voluto o potuto dire nulla di significativo su nessuna delle principali questioni politiche attualmente in campo, tanto meno sulle dolorose vicende politico-economico-giudiziarie del recente passato, che pure costituiscono parte decisiva di qualsiasi possibile ricostruzione minimamente sensata dell’esperienza del Pd. Non per caso l’unico a rompere il tabù è stato Francesco Rutelli, che dalla partita congressuale appare definitivamente tagliato fuori, e forse anche dal partito. “Consorte dà prova di sincerità – ha dichiarato in questi giorni al Corriere della Sera – la nascita di un grande gruppo finanziario legato alla tradizione del vecchio partito comunista e delle coop rosse era una chiara partita politica”. Parole che nel Pd sono state accolte da un imbarazzato silenzio. Eppure sarebbe stato facile rispondere che se la scalata di Unipol alla Bnl era una chiara operazione economica (delle cooperative), pur con evidenti e rilevantissimi effetti politici, la vera partita politica (dagli evidenti e rilevantissimi moventi economici) è stata semmai la campagna contro quella scalata, contro le cooperative e contro la sinistra (in quest’ordine, e fatti salvi quelle cooperative e quei politici del centrosinistra che, come Rutelli, si unirono per tempo alla crociata guidata dal Corriere della Sera). Su tutte le storie che nel corso del 2005 sono state spacciate come verità rivelate non è più nemmeno il caso di soffermarsi, dopo avere assistito al tifo da stadio che ha accompagnato le successive fusioni bancarie e aver visto come sono finite quelle grandi banche internazionali, specchio di tutte le virtù, che il perfido Antonio Fazio voleva tenere fuori dai patri confini: alcune, semplicemente, non esistono più.
A prima vista, il congresso sembrerebbe dunque una splendida occasione per riprendere il filo del discorso e dire finalmente, almeno ai propri iscritti, una parola di verità sulle complicate vicende di quegli anni, che tanto potentemente hanno influito sui successivi sviluppi della politica italiana, e in particolare del Pd. Ma a uno sguardo più attento si capisce perché quest’occasione non è stata e non verrà colta da nessuno: perché l’unico punto su cui tutti i maggiori dirigenti del Pd sembrano avere ormai raggiunto il pieno accordo è che la verità, come la politica, è una medicina estrema, che a iscritti ed elettori può essere somministrata soltanto in dosi omeopatiche. (il Foglio, 30 settembre 2009)

7 commenti leave one →
  1. 30/09/2009 08:06

    L’acrobatico tentativo di attribuire la noia mortale della campagna alle primarie in quanto tali piuttosto che ai contenuti della campagna stessa valeva tanta attesa perché tu tornassi a scrivere qualcosa. Ciao, L.

  2. una commentatrice impietosa permalink
    30/09/2009 15:55

    tzè: tutte queste righe, e non riuscire neanche a elaborare il semplice ma illuminante concetto di «voto inutile» (cfr «Qualcuno ha provato a imbastardire questo modello piazzando in mezzo a un processo che sarebbe stato lineare (i cittadini che si identificano con il Pd decidono il segretario senza che ci siano di mezzo sezioni, federazioni, signori delle tessere) un voto inutile degli iscritti.»)

  3. 30/09/2009 20:59

    Analisi impietosa. Estrema. Ma interessante, altroché!

  4. 01/10/2009 14:57

    Primo. Siamo felici di rivederla tutto di un pezzo. Ci stavamo preoccupando.
    Secondo. A proposito del pezzo. Impietoso ma lucido, una delle sue migliori prove. Complimenti, e non sparisca più.
    M
    2b

    P.S. “l’allegro chirurgo”… sono due giorni che rido da solo…

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