Quando Tremonti fa il mercatista
In questi giorni si è parlato molto di libertà d’informazione, poco e in modo piuttosto confuso del problema dei fondi pubblici all’editoria, alimentando parecchi equivoci. Il primo equivoco è che il problema dei contributi sia stato risolto con l’emendamento al decreto milleproroghe recentemente approvato (ma su questo si fa presto a chiarire: non è vero). Il secondo e più insidioso equivoco consiste nello scambiare una scelta politica consapevole con una questione tecnica.
Il problema non è di bilancio. Il problema è che il governo, non avendo la forza e il coraggio di stabilire criteri precisi per decidere quali testate abbiano diritto ai fondi e quali no, prima denuncia lo scandalo delle testate fasulle che ai fondi non dovrebbero accedere, quindi ribadisce l’esigenza di una riforma del settore (che però da due anni si guarda bene dal varare) e nel frattempo toglie a tutti il diritto al contributo per un periodo indefinito (l’intervento risolutore viene continuamente promesso e continuamente rinviato). In questo modo, se e quando la vera riforma vedrà la luce, si capisce che il settore sarà stato già ampiamente riformato dalla selezione naturale.
Nel merito, la questione non è complicata. In Italia lo stato finanzia l’editoria con un apposito fondo della presidenza del Consiglio. Da questo fondo vengono i cosiddetti aiuti indiretti di cui beneficiano tutti i principali gruppi editoriali, tutti i principali quotidiani e settimanali, attraverso contributi sulle spese postali e sulle utenze. Quello che resta si divide tra le quasi cento testate di idee, di partito e cooperative, che poi sono le uniche di cui si parla, per la semplice ragione che il governo è qui – e solo qui – che ha deciso di tagliare. E già su questa scelta, tutt’altro che tecnica, si potrebbe discutere. Per il resto, non serve farla lunga: il punto è che per l’anno in corso le testate che fino a ieri accedevano ai contributi diretti non avranno diritto al becco d’un quattrino. Testate di centrosinistra come il Manifesto, l’Unità, Europa, Liberazione; testate di centrodestra, come la Padania e il Secolo d’Italia; ma anche testate come Avvenire, organo della Cei. In tutto, quasi cento, buona parte delle quali, se la legge non cambia, dovrà portare a breve i libri in tribunale. Può permettersi un governo di assumersi una simile responsabilità, peraltro mentre continua a sovvenzionare in vario modo i settori più diversi? E può permetterselo, in particolare, il governo di Silvio Berlusconi? Non pone anche questa vicenda qualche problemino per la libertà d’informazione?
Tra le testate che accedono ai fondi c’è anche Red, la televisione che dirigo, e questo giornale. Il mio giudizio potrebbe pertanto essere velato dall’interesse personale. Può darsi dunque che mi sbagli e che la decisione di far chiudere decine di testate sia accolta nel paese da cori di urrà per il premier e per il ministro Giulio Tremonti, in nome della lotta contro gli sprechi, contro l’assistenzialismo e contro la casta dei giornali che campano coi soldi del contribuente. E senza badare troppo al fatto che in questo modo lo stato spenderà molto di più in cassa integrazione, o al fatto che nel momento stesso in cui si tagliano i fondi alle piccole testate si inserisce un codicillo per mettere bene in chiaro che dai tagli vanno escluse le grandi (curiosa idea di tutela del pluralismo), o ancora che i famosi furbi annidati tra le testate a contributo – i giornali inesistenti che non dovrebbero prendere un centesimo – resisteranno benissimo fino all’avvento della tanto sospirata riforma (essendo inesistenti, non avranno grandi spese), mentre a fallire saranno le aziende oneste, con veri dipendenti e verissimi costi da sostenere. Pazienza, insomma, se alla fine il governo conseguirà l’obiettivo esattamente contrario rispetto a quanto enunciato: spenderà di più e premierà i farabutti.
Può darsi che vada così, e che la scelta del governo sia largamente approvata dall’opinione pubblica, a destra e a sinistra. In tal caso, a sinistra, resterà da capire come conciliare il ritornello sul regime e sul monopolio dell’informazione con l’idea che il pluralismo non abbia in Italia nessun bisogno di aiuti statali e possa reggersi benissimo sul mercato (che non c’è). Un’idea che si potrebbe definire forse “mercatista”. D’altra parte, a sinistra, non manca nemmeno chi lamenti la natura sovietica e illiberale di un provvedimento minimo come la par condicio, per poi invocare nientemeno che una legge sull’intero conflitto di interessi di Berlusconi (cioè una par condicio all’ennesima potenza, a meno che non si pensi direttamente all’esproprio). Tra l’altro, questa campagna ricorrente e largamente bipartisan contro la par condicio non ha reso certo più facile contrastare l’attuale decisione di sospendere tutti i programmi di approfondimento politico in campagna elettorale. Decisione oggettivamente clamorosa, spacciata come pura e semplice applicazione dei principi di quella par condicio che in realtà si punta prima a delegittimare, poi a svuotare dell’oggetto che dovrebbe regolare (le trasmissioni politiche) e infine ad abolire. Ma sempre, si capisce, in nome della libertà, o del libero mercato dell’informazione, se si preferisce.
La contraddizione più singolare resta però quella del ministro Tremonti. Attraverso libri, dichiarazioni, interviste e conferenze, il ministro dell’Economia ha svolto sin qui un discorso pubblico di indiscutibile coerenza contro l’ideologia “mercatista”, contro l’establishment accademico e giornalistico che di quel “pensiero unico” è il più strenuo propagandista, e in difesa del ruolo dello stato, della cultura del lavoro, dell’economia sociale di mercato. Massimo Mucchetti, un commentatore certo non ascrivibile né a Tremonti né al centrodestra, è arrivato a riconoscere per questo al ministro addirittura un’utile “opera pedagogica”. L’incredibile vicenda dei fondi all’editoria fa sorgere però il sospetto che il peggior allievo del Tremonti professore, intellettuale e pedagogo sia proprio il Tremonti ministro. (il Riformista, 3 marzo 2010)