Scalate finanziarie e ricadute politiche
Come è noto, non si può parlare di un processo senza avere studiato le carte, né commentare una sentenza senza aver letto le motivazioni, né discutere le motivazioni senza conoscere il caso, la giurisprudenza, la filosofia eleatica e soprattutto le buone maniere. Solo delle indagini, cioè di accuse, intercettazioni e insinuazioni di qualsiasi genere, in Italia, si può parlare quanto si vuole e senza tanti problemi. Nel caso poi della sentenza Antonveneta, che ha visto condannati l’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio e l’ex capo di Unipol Giovanni Consorte a pene pesanti (per il governatore, persino più di quanto chiesto dall’accusa), i giornali non avevano aspettato nemmeno le indagini. Tuttavia, non possiamo dimenticare che si tratta di una sentenza di primo grado, come certamente non lo avranno dimenticato i giudici che l’hanno finalmente emessa, a sei anni dai fatti. Tanto più dinanzi alla concreta possibilità che all’ultimo grado di giudizio, per via della prescrizione, non si arrivi mai. Un rischio, ma anche un’opportunità, che secondo Franco Bechis li avrebbe spinti a pronunciare una condanna politico-morale, scrivendo “per la memoria più che per la giustizia”. Ma quella del vicedirettore di Libero è una posizione isolata, a dir poco.
Per il Sole 24 Ore la sentenza è invece “un monito per tutti a non abbassare mai la guardia nella tutela del risparmio e del corretto funzionamento dei mercati”, mentre per Dario Di Vico, sul Corriere della Sera, fornisce una traccia “che per chi fa il nostro mestiere vale più dell’oro. Ci suggerisce che ebbero ragione i giornali di allora, prima il Sole 24 Ore e poi il Corriere, ad accendere i riflettori sui metodi e le intenzioni della cordata dei nuovi ricchi”. Di qui la sua ecumenica conclusione: “Molte volte la stampa sbaglia, in quell’occasione pare che abbia fatto (bene) il proprio lavoro”.
Sull’esigenza di “non abbassare mai la guardia nella tutela del risparmio” segnalata dal Sole 24 Ore ognuno può valutare da sé. Certo non sono mancati scandali finanziari assai più gravidi di conseguenze per i risparmiatori, prima della scalata Antonveneta. Ma a guidare le danze non erano allora cordate di “nuovi ricchi”, bensì il fior fiore di quell’aristocrazia del denaro che tuttora controlla banche e giornali, e non si può dire che i “riflettori” accesi dalla libera stampa siano stati con loro altrettanto abbaglianti. Va detto però che uno spazio equivalente a quello dedicato alle scalate del 2005 il Corriere non lo ha dato nemmeno all’11 settembre. Del resto, anche il riferimento di Di Vico ai soli Corriere e Sole 24 Ore appare decisamente ingeneroso, giacché a quella campagna si unirono subito tutti i maggiori quotidiani del paese. E proprio in quell’occasione fece il suo trionfale ingresso nel nostro dibattito pubblico l’uso massiccio di intercettazioni telefoniche, indipendentemente dalla loro rilevanza processuale, come strumento di delegittimazione dei propri avversari.
Dalla terribile estate del 2005 sono passati sei anni. Nessuno ricorda più i dettagli di quella complicatissima vicenda, in cui si intrecciarono (o si vollero presentare come intrecciate) le scalate di Gianpiero Fiorani ad Antonveneta e Stefano Ricucci al Corriere della Sera da un lato, e quella di Unipol a Bnl dall’altro. Una campagna cui parteciparono tante autorevoli personalità del centrosinistra, e che ebbe indubbie ricadute politiche, non solo sulla risicata vittoria dell’Unione nel 2006. Basta guardare a cos’è stato fino a ieri il campo progressista, tra fautori del modello americano, schierati su una linea di riformismo tecnocratico, e fautori di un modello sostanzialmente sudamericano, populista e giustizialista. Due facce della stessa medaglia antipolitica, per non dire antidemocratica. E oggi, all’indomani di elezioni amministrative tanto importanti e significative, e che vedono tra l’altro il trionfo di due candidature e di due idee di sinistra così diverse come quelle di Giuliano Pisapia a Milano e di Luigi de Magistris a Napoli, non è forse il momento meno adatto per tornare a rifletterci su.
Purtroppo, a fronte di un’impressionante produzione pamphlettistica quasi tutta schiacciata sulle tesi dell’accusa, le vicende del 2005 attendono ancora il loro storico, così come, del resto, ancora lo attendono le vicende del ’92-93. Ma senza il coraggio di aprire a sinistra una vera discussione su questi anni e su questi problemi, da parte di dirigenti, storici e intellettuali, il rischio di uno “scenario napoletano”, molto più che milanese, sarà sempre dietro l’angolo. (il Foglio, 31 maggio 2011)