Se Grillo denuncia l’intesa del Nazareno
Quando i pubblici ministeri non fanno politica, i politici fanno i pubblici ministeri. La maledizione che da vent’anni perseguita l’Italia è tutta qui. Anzi, quasi tutta, perché in questo gioco che tende a confondere sistematicamente la politica con la giustizia, a danno di entrambe, manca ancora un terzo e decisivo attore: la stampa. Lo dimostra la decisione di un parlamentare del Movimento 5 Stelle di presentare un esposto-denuncia per accertare, come ha spiegato ieri egli stesso, «esistenza e contenuto del patto del Nazareno».
L’idea che una formula giornalistica passi direttamente dalle pagine dei retroscena ai verbali delle procure, sulle prime, può anche far sorridere. Molto meno, però, dovrebbe far sorridere l’idea che questa volta sia addirittura un parlamentare a ritenere di dovere sottoporre al vaglio preventivo dell’autorità giudiziaria «esistenza e contenuto» di un accordo politico tra il capo del governo e il capo dell’opposizione. Fino a ieri, i pubblici ministeri più disinvolti e più inclini alla tentazione di mettere sotto tutela le forze politiche dovevano almeno scomodarsi a raggiungerle.
Non è la prima volta, però, che un patto sulle riforme stretto da un leader del centrosinistra con Silvio Berlusconi suscita, almeno sui giornali, accuse e sospetti al limite della teoria della cospirazione. Oggi al centro di tutti i possibili intrighi c’è il «patto del Nazareno» voluto da Matteo Renzi, nel 1997 c’era il «patto della crostata» siglato da Massimo D’Alema, ma le stesse erano le accuse e i sospetti: un patto scellerato che doveva nascondere certamente inconfessabili concessioni in favore di Berlusconi, a cominciare, va da sé, dalla riforma della giustizia. L’unica differenza è che allora nessun parlamentare si rivolse alla procura (in compenso, più di un autorevole pm si rivolse alla politica, con interviste e interventi di rara durezza).
Curiosamente, il fatto che alla fine la grande riforma elaborata dalla bicamerale non fu mai approvata, e proprio per il venir meno del consenso del centrodestra, non ha alleggerito di un grammo il carico di sospetti che ancora oggi gravano su quel tentativo. Anzi, si potrebbe sostenere che la vera ragione del definitivo affermarsi dell’interpretazione demonizzante della bicamerale sia proprio questa: il suo fallimento. Non essendosi potuta incarnare in alcun concreto cambiamento dell’assetto istituzionale, è rimasta un fantasma, che come tale ha continuato a perseguitare non solo il suo protagonista, ma in qualche modo l’intera politica italiana, come dimostra oggi il ripresentarsi delle stesse crisi di rigetto e degli stessi tentativi di demonizzazione nei confronti del «patto del Nazareno».
La delegittimazione reciproca tra gli schieramenti produce l’indebolimento della politica, che a sua volta attrae le ingerenze della magistratura (con o senza invito scritto in forma di esposto-denuncia). E’ una storia lunga, le cui origini si potrebbero rintracciare, a sinistra, oltre mezzo secolo fa. E prevede un copione fisso e immodificabile: ogni riforma non è mai semplicemente sbagliata o criticabile nel merito per questa o quella scelta concreta. E’ sempre, tutta intera, nientemeno che una minaccia alla democrazia. Nonché, sempre e inevitabilmente, la puntuale attuazione del «piano di rinascita nazionale» della P2 di Licio Gelli (che essendo piuttosto lungo e vario, ha il vantaggio di offrire sempre almeno due o tre punti che si prestino al paragone).
Nonostante tutto, però, una simile cultura del sospetto è oggi meno forte e meno diffusa che in passato. Lo dimostra la forza di Renzi, che almeno fin qui sembra essere riuscito a respingere la campagna di demonizzazione senza lasciarsene condizionare, anzi rivendicando pienamente l’autonomia della politica. E questo è certamente un buon segno, comunque la si pensi sul merito delle riforme istituzionali o sulla legge elettorale. Da questo punto di vista, l’iniziativa giudiziaria dei Cinquestelle appare una mossa più disperata che pericolosa. Ma forse è ancora presto per dire se il peggio di questi vent’anni sia davvero alle spalle.
Tra le molte altre, dunque, Renzi ha adesso anche questa responsabilità, perché dalla sua vittoria o dalla sua sconfitta nella partita delle riforme dipende la possibilità di inaugurare in Italia una naturale dialettica tra maggioranza e opposizione, che porti la lotta politica fuori dall’eterna paralisi della delegittimazione reciproca. E, possibilmente, anche fuori dalle procure.
(Il Mattino, 11 novembre 2014)