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Un noir “generazionale”

29/12/2015

unitaTre amici tra i trenta e i quaranta anni che fanno gruppo dai tempi di scuola. Due che hanno forse cominciato a sistemarsi, grazie alle famiglie; l’altro, intellettuale spiantato, che tira avanti come supplente. Partiti per partecipare al restauro di un monastero nelle isole Solovki, costa settentrionale russa, dove scompaiono misteriosamente, i tre diverranno l’ossessione di un altro «ragazzo» ultratrentenne, laureato in Scienze politiche e giornalista feelance, cioè precario: Alessandro Capace. Comincia così Mar Bianco (Mondadori), primo romanzo giallo di Claudio Giunta, classe 1971, anche lui laureato in una di quelle materie che alcuni definirebbero inutili (letteratura italiana), pure lui collaboratore di diversi giornali. La differenza è che Giunta non è certo un precario: è un affermato dantista e ha già pubblicato una spaventosa quantità di libri, da un’edizione critica delle Rime ai racconti di viaggio. E ora un noir, con tutti gli ingredienti giusti: meccanismo perfetto, dialoghi brillanti, ambientazione suggesitva. Da un altro punto di vista, tuttavia, l’impressione è che il libro non sia così lontano da quella letteratura medievale che è il vero campo di studi dell’autore. E che dunque il nome del protagonista, Capace, non sia scelto a caso. Oltre a essere un bellissimo noir, sospettiamo insomma che il libro sia anche un apologo sull’assenza di meritocrazia in Italia, dove i giovani sono tutti un po’ bamboccioni, tutti aspiranti scrittori e giornalisti che possono permettersi di sognare perché a mantenerli pensano mamma e papà. Il che risulterebbe pure un po’ antipatico, detto da un italianista quasi coetaneo, che a realizzare quei sogni è brillantemente riuscito. E sarebbe una mezza verità, che non spiegherebbe perché una popolazione prima capace (con la minuscola) di spezzarsi la schiena per costruire dal nulla l’Italia del benessere, tutto a un tratto, si sarebbe ridotta a una manica di narcisi falliti, anaffettivi e frustrati. Quello del protagonista, apparentemente convinto che la sua condizione dipenda dai privilegi dei colleghi più anziani, è una sorta di “nichilismo thatcheriano”, in cui qualunque forma di legame umano, persino con la propria madre, appare come un modo di fare cricca per falsare la gara della vita, privilegiare gli uni a discapito degli altri. Una filosofia che in realtà, in quei salotti progressisti apparentemente tanto lontani dal protagonista, ha attecchito da tempo. Capace somiglia in fondo al personaggio di Nanni Moretti che gridava: «Io lo so che tipo è lei: ha il suo macellaio di fiducia, che le tiene i pezzi migliori…». Quello che, alla sconcertata replica: «Perché, c’è qualcosa di male?», rispondeva con piglio da Torquemada: «E certo che c’è. Se ci vado io, poi mi prendo i pezzi peggiori». Non a caso il termine meritocrazia è stato coniato da un socialista per definire una realtà distopica e disumanizzata. E forse così si spiega anche la carenza di calore umano che caratterizza i personaggi.
«Li tratterò come meritano», dice Polonio ad Amleto, per rassicurarlo sull’ospitalità che riserverà agli attori appena arrivati. «Per il sangue di Cristo, amico, molto meglio!», gli risponde, giustamente, il principe di Danimarca. «Trattate ogni uomo secondo il suo merito, e chi sfuggirà alle frustate?».

(L’Unità, 28 dicembre 2015)

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