Populismo fiscale
Non è difficile capire quale sia il vero obiettivo della propaganda sulla lotta implacabile ai grandi evasori, anzi grandissimi, ma che dico grandissimi: stranieri (le solite multinazionali). È l’unico schema di gioco che i populisti sanno giocare: raccontare balle, alimentare la rabbia e cercare un capro espiatorio su cui rovesciarla — in questo caso i grandissi-missi-missi-mi evasori — facendo però bene attenzione a che la grande massa degli evasori piccoli e medi, che sono il novanta per cento del problema, ma anche del loro elettorato, capisca il messaggio e lo trovi sufficientemente rassicurante. Se dunque, come leggo sui giornali, questa volta Giuseppe Conte e Roberto Gualtieri hanno deciso di fare la lotta all’evasione sul serio, e cioè non attraverso l’idea delle manette agli evasori (che in Italia, considerate lunghezza dei processi e opacità della legislazione, sarebbe il colpo definitivo allo stato di diritto e anche all’economia), ma con i limiti al contante e con consistenti incentivi al pagamento elettronico, benissimo. E se su questo si dovranno scontrare contro le opposte demagogie delle manette fiscali (Di Maio) e del libero rotolo di banconote (Renzi), c’è solo da rallegrarsene e da incoraggiarli. E da sperare che ce la facciano.
Il problema è che l’idea di rispondere a ogni problema con il carcere, che si tratti di presunti evasori dai colletti bianchi o di presunti invasori dalla pelle nera, non ha mai abbandonato il capo del governo, né il governo, né la sua maggioranza. Ma è difficile illudersi che su questo potremo mai fare grandi passi avanti, finché a sinistra non si capirà che l’invocazione della galera per i potenti, i banchieri, i miliardari, non è altro che lo specchietto per le allodole dietro cui si nascondono pulsioni autoritarie di cui sono e saranno sempre i poveracci a fare le spese.
Parafrasando i classici, quello che mi preoccupa, come al solito, non è il populismo in sé, ma il populismo in noi.