Il colore dei soldi
Ieri non ho scritto nulla. Dunque non ho scritto nemmeno due cose che forse, per motivi diversi, sarebbe stato ragionevole attendersi da questo blog (ammesso che sia ragionevole attendersi qualcosa da un blog, ma sarebbe un altro discorso). La prima è un commento, una parola di cordoglio, una foto, un ricordo o una battuta di Paul Newman, che, come forse i più attenti di voi avranno saputo, ieri è morto. La seconda è un commento all’editoriale di Francesco Giavazzi, che sul Corriere della sera, sempre ieri, ha dato davvero il meglio di sé (qui la sintesi più efficace e qui quello che avrei scritto io, se solo fossi in grado di ricordarmi che in questi casi, tra persone perbene, si dice “confuso”, così si evita la querela e si fa pure bella figura). Eppure, per quel poco che ricordo dei miei studi classici, che avendoli ripetuti diverse volte a quest’ora dovrei avere memorizzato perfettamente, anche i massimi artisti dell’antica Grecia contemplavano il caso di un’esperienza umana semplicemente irrappresentabile, ad esempio ponendo un velo sul volto dell’uomo o della donna al centro di un dipinto – perché persino la capacità espressiva più raffinata, oltre un certo limite, deve cedere il passo.
Mi complimento. Scrive Quintiliano che il pittore greco Timante, dovendo dipingere il sacrificio di Ifigenia nel quale il padre Agamennone ordina suo malgrado di uccidere la figlia, “non trovando niente che potesse essere degno dell’espressione di un padre, ne velò la testa”. L’eco di questo dipinto ci è giunto su un affresco di Pompei http://www.culturacampania.rai.it/site/_contentimages/00044300/44326_000022.jpg