Cosa mi aspetto dal domani
Le prime tre parole che ho imparato a pronunciare, e che a quanto mi dicono ho ripetuto come una filastrocca fino alle soglie dell’età della ragione, ammesso che poi tale soglia io l’abbia mai varcata, sono state: “Uva, mamma, papà”. In ordine di preferenza, immagino, sebbene di tale sfrenata passione per l’uva in me non sia rimasta oggi nessuna traccia (per tacere delle altre due). D’altra parte, avessi sillabato già allora: “Sigarette, Suslov, Maalox”, non credo sarebbe stato preso per un buon segno. Comunque sia, le successive nove parole che ho imparato a pronunciare, anch’esse ripetute a lungo come una filastrocca, quale in effetti erano, sono state: “Forza Roma, forza Lupi, so’ finiti i tempi cupi”. Di questa seconda fissazione in me una traccia è effettivamente rimasta, segnata però da un curioso lapsus che mi coglie ogni volta che ripeto il ritornello (anche adesso, nello scriverlo, ho dovuto fare un discreto sforzo di autocontrollo per non incapparci di nuovo). Ogni volta, infatti, finisco per dire: “…so’ tornati i tempi cupi”. Chi sia stato il vile laziale certamente responsabile del mio trauma infantile, spregevole individuo capace di instillare un simile veleno nella mente di un bambino innocente, così da mutare in cupa profezia ogni mio spontaneo moto di esultanza, non so. Ma credo che a tale crimine sia da addebitare buona parte della mia scarsa propensione alla letizia, all’ottimismo e alla serena gioia di vivere. Ieri però ho incontrato colei che mi ha fatto da balia e che mi ha insegnato quell’antica filastrocca – come tutto quello che conta – e ho pensato che l’imprinting è una cosa seria, nonostante tutto, anche per gli esseri umani. Insomma, per la prima volta dopo molti anni, mi è venuta voglia di andare allo stadio. E mi è venuto persino da domandarmi se non fossero davvero finiti, quei tempi, nonostante tutto.