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I nostri superasciugacapelli

22/12/2008

Ho passato gli ultimi giorni a occuparmi della crisi del Pd e in particolare della direzione di venerdì, dove molto si è parlato della crisi economica e della crisi democratica, senza dimenticare la crisi della politica, ovviamente. Oggi ho provato a distrarmi guardando Domenica In. Ho acceso e ci ho trovato un medico che era lì per presentare un libro e che giusto in quel momento stava dicendo: è evidente la crisi della medicina. Ecco, ho pensato, accidenti: la crisi della medicina me l’ero proprio persa. E pensare che lavoro al Foglio, dove queste cose non passano inosservate. E’ chiaro che l’orizzonte dei miei interessi, nonostante tutti i feed da me scrupolosamente sottoscritti a tutte le maggiori riviste letterarie burundesi e a tutte le più serie pubblicazioni scientifiche pakistane, c’è poco da fare, dev’essersi terribilmente ristretto. Puoi comprare, sfogliare e rubare tutto l’umanamente leggibile, ma alla fine sarai sempre preparatissimo sulle solite quattro scemenze che hai imparato a otto anni e non saprai mai niente di niente di tutto il resto. Rimane il fatto, però, che se c’è la crisi di tutto, e nessuna di queste crisi è propriamente una novità dell’ultimissima ora, mi sa che la crisi è una sola. Ed è tutta nostra. Insomma: il tempo passa, il mondo va avanti, le cose cambiano e noi non ci capiamo niente. Tutto come al solito. Per noi il concetto di crisi è come il superasciugacapelli per la principessa Vespa: indispensabile per sopravvivere. Ma anche piuttosto pesante da tirarsi dietro, e pure piuttosto inutile, in mezzo al deserto. Forse però nel deserto ci siamo sempre stati, forse ci siamo proprio nati, forse è soltanto che tutte le parole sono inutili. E se ti fermi e ci guardi dentro scopri che sono vuote. Hai sempre pensato: quando ti servono non le trovi mai. E invece erano tutte lì, le stesse di sempre, non te ne è mai mancata nessuna. Non le trovavi perché ne cercavi altre, che non esistono, perché non possono esistere parole che non siano state già dette. Ma come è possibile? E la prima volta – perché ci deve pur essere stata una prima volta – in cui un uomo pronunciò la parola “tavolo”? Nessuno lo capì.

11 commenti leave one →
  1. 22/12/2008 01:14

    Puoi star sicuro che non c’è mai stata nessuna prima volta in cui un uomo pronunciò la parola “tavolo”.

  2. francesco cundari permalink
    22/12/2008 10:10

    Immagino tu intenda: “Sarebbe come dire: la prima volta in cui un singolo uomo giocò una partita di calcio”, ma l’esempio più corretto sarebbe invece: “La prima volta in cui un uomo diede un calcio a un pallone”. E se con “tavolo” la cosa si presta a equivoci, basta cambiare la parola. Per esempio, la prima volta in cui un uomo pronunciò la parola “hobbit”.

  3. 22/12/2008 10:16

    Su hobbit non mi pronuncio, ignorandone drammaticamente il significato. Ma sulla prima volta in cui un uomo diede un calcio a un pallone sì. Neanche lì, secondo me, c’è una prima volta: per pallone cosa intendi? Una pallottola di foglie avvoltolate va bene uguale? E per calcio? Intendi qualcosa che avesse l’intenzione espressa del calciare (e non, per esempio, dello scalciare)? Temo che anche in questo caso una prima volta non c’è. E siccome dubito che tu abbia piacere a conservare una mentalità metafisico-teologica, ti invito a considerare seriamente l’ipotesi che le prime volte, in generale, non esistono.

  4. 22/12/2008 10:18

    (E ora non mi tirare in ballo le prime volte che non si scordano mai: mi raccomando)

  5. francesco cundari permalink
    22/12/2008 10:21

    Il fatto che sia (spesso) impossibile determinarla non vuol dire che non ci sia stata, e mi meraviglia che un filosofo della tua levatura incorra in un simile errore (forse perché stamattina ti sei levato troppo presto). Ovviamente possiamo metterci d’accordo, convenzionalmente, su cosa intendiamo, ma è problema facilmente risolvibile (o evitabile). per esempio: la prima volta in cui un singolo uomo diede un calcio a un pallone in una regolare finale di coppa dei campioni”.

  6. Mae* permalink
    22/12/2008 11:44

    Mi pare che questo vostro scambio dimostrai di per sé come ci sia una crisi comunicativa.

  7. 22/12/2008 12:31

    Ti sbagli: comunichiamo che è una bellezza

  8. francesco cundari permalink
    22/12/2008 12:37

    sin dalla prima volta in cui ci siamo parlati, per l’esattezza

  9. 22/12/2008 12:47

    penso che si voglia dire che la prima volta in cui qualcuno pronunciò la parola tavolo come minimo era la seconda, perché la prima non c’era un tavolo e non c’era la parola: diversamente cadremmo in un’astrazione, cioè considerare che le vicende umane non siano avvoltolate nella prassi da cui crediamo emergano, ma stiano già lì belle compiute davanti a noi già qui belli compiuti, con solo l’imbarazzo di decidere convenzionalmente come chiamare il cane (fido? fuffi? tavolo? sara femmina? tavola!).
    Questo dovrebbe anche smontare l’obiezione per cui l’impossibilità di determinare il primo non significa che il primo non ci sia stato (in questo caso, infatti, coincidono: non c’è stato come primo, essendo il primo un effetto retroattivo del secondo, essendo “le cose” “diventate” in quello spazio vuoto, essendo determinabili proprio nel seguito di quello).
    Peraltro anche francesco si era in parte già risposto terminando il post con “nessuno lo capì”: purché questo nessuno comprenda anche il parlante.
    (io non sono un filosofo e mi esprimo un po’ così, ma sono per limitare la crisi communicativa allo stretto necessario)
    ;)

  10. francesco cundari permalink
    22/12/2008 12:59

    infatti, per questo distinguevo tra “giocare una partita” (dire “tavolo” e capirsi) e “dare un calcio al pallone” (pronunciare la parola “ta-vo-lo”). ciò non toglie, ovviamente, che ci sia grossa crisi (anche se non saprei dire esattamente da quando)

  11. 22/12/2008 16:54

    ed è per questo che tra chomsky e humboldt e huizinga ho sempre preferito gli ultimi due, probabilmente non capendo il primo se non come sceneggiatore di michael moore

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