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Democratici suicidi

20/02/2009

Quel che accadrà oggi non è difficile prevederlo, dopo le dimissioni di Walter Veltroni e l’unanime accordo trovato nel gruppo dirigente del Pd sul nome di Dario Franceschini come “traghettatore” attraverso la campagna elettorale e fino al congresso di ottobre. Quel che accadrà domani, quando l’Assemblea nazionale (fu Costituente) sarà chiamata a ratificare la decisione, è invece molto più difficile dirlo.
Certo è che l’ipotesi che i delegati boccino la proposta “unitaria” del gruppo dirigente non è nemmeno lo scenario peggiore. Lo scenario peggiore è che quella proposta sia approvata, ma che a farlo sia un’assemblea semideserta, segnata da proteste e accuse di golpe, tra sfoghi, schiaffi, sedie volanti e delegati che abbandonano la sala prima del voto, lasciandola ancora più vuota. Lo scenario peggiore è che un “segretario a tempo” sia eletto così, alla vigilia di una difficile tornata elettorale (che comprende europee e amministrative), salutato da giornali e telegiornali con le immagini e le voci di una simile investitura.
Quel che accadrà oggi, dopo il voto del coordinamento che mercoledì ha approvato la linea della “reggenza” Franceschini e dopo l’intervista di Franco Marini al Corriere della Sera di ieri, è quasi certamente una parata di autorevoli personalità che spiegheranno ciascuno a suo modo quello che ha già spiegato Marini. E cioè che l’unico, vero, grave errore di Veltroni sarebbe stato quello di dimettersi (ah, questi segretari insicuri…); che la sconfitta in Sardegna non era poi così terribile; che alle politiche il Pd era andato benissimo (anche Marini, infatti, prosegue sulla linea dell’arrotondamento del risultato dal 33,1 al 34, sfidando estetica e matematica) e che insomma andava tutto a meraviglia, anche la candidatura di Pier Luigi Bersani andava benissimo, e pertanto, dopo il piccolo imprevisto delle dimissioni di Veltroni, non resta che affidare il prosieguo della navigazione – della navigazione sicura e senza intoppi assicurata sin qui dallo stesso Veltroni – alle sapienti mani del suo vice. C’è da scommettere che oggi molti autorevoli dirigenti del Pd ripeteranno questa stessa filastrocca, invitando il partito a guardare avanti, ad avere fiducia e soprattutto a restare unito, dinanzi alla difficile campagna elettorale che lo attende. Dopo aver fatto di tutto, però, per renderla praticamente impossibile, per il partito e per l’intrepido Franceschini.
Riassumendo: dinanzi al Pd sta una serie di battaglie difficilissime. Persa la prima, il segretario ha deciso di mollare, facendo capire chiarissimamente che è stata tutta colpa degli altri. Dopodiché, ha proposto a quegli stessi dirigenti ai quali aveva appena finito di imputare ogni disgrazia, pensate un po’, di affidare la guida del partito al suo vice. E quelli gli hanno risposto che era proprio una magnifica idea, purché fosse chiaro che Franceschini resta segretario soltanto il tempo di accollarsi l’esito del voto. In modo che poi, al congresso di ottobre, come tante vergini immacolate, i veri candidati alla leadership possano fare il loro trionfale ingresso in campo. Tra le macerie.
Ma è mai possibile che un aspirante leader – e ce ne sono molti, tra i sottoscrittori dell’accordo – pensi di guadagnarsi il posto così, accordandosi con tutti gli altri aspiranti segretario, aspiranti vice e aspiranti presidente per abbandonare il partito nel momento più difficile, con l’argomento che se no ci si divide, che così non vale, che così è troppo difficile, e adesso ci metta la faccia qualcun altro sulla sfilza di sconfitte che ci aspettano, io vengo dopo. E’ possibile che tra tutti gli aspiranti leader (funzione che dizionario alla mano dovrebbe essere quella di “guidare, condurre”) non ce ne sia uno capace di dire al suo popolo che la sconfitta non è inevitabile, che dipende da ognuno di loro, che ora non è il momento di piagnucolarsi addosso e che lui – in quanto, per l’appunto, leader – è prontissimo a metterci il cuore e la faccia, e onorato di farlo se così vorranno i delegati dell’assemblea, i membri della direzione, gli iscritti al partito, gli elettori delle primarie o qualsiasi altra platea legittima si voglia convocare?

Il modello Soru
E pensare che proprio quella sconfitta in Sardegna che Marini non considera “tanto grave da rendere necessarie le dimissioni del segretario” offriva invece una splendida occasione per discutere finalmente del segretario e soprattutto della sua linea politica, che dovrebbe essere l’importante. Invece si fa l’esatto contrario: si sostituisce il segretario (tra molti ringraziamenti) e si lascia intatta la linea. La sconfitta in Sardegna nasce infatti da una precisa scelta di Renato Soru, che ha voluto andare alle elezioni anticipate per ridurre all’obbedienza i “capicorrente” del suo partito. Quelli, vorrei ricordare, che lo avevano sconfitto alle primarie per la guida del Pd e che al contrario di Soru erano schierati con Veltroni, e da lui naturalmente appoggiati, prima che Soru divenisse editore dell’Unità e Veltroni costringesse alle dimissioni il legittimo vincitore delle primarie. A quel punto, stabilito di far cadere il governo – sardo, s’intende – per regolare i conti nel partito e nella coalizione (ricorda nulla?), Soru è andato al voto con una coalizione tanto “omogenea” da permettere a Silvio Berlusconi, come ha notato ieri Roberto Gualtieri sul Mattino, di costruire una larghissima alleanza, e quasi di centrosinistra, con Partito sardo d’Azione e socialisti, che sommati a Udc e Riformatori sardi hanno portato a Ugo Cappellacci il 20 per cento dei voti. Ecco un buon tema per quelle “riflessioni approfondite” che tutti dicono di volere. E se da una simile discussione emergessero delle divisioni, ebbene, se ne discuta: ognuno dica come la pensa e si voti. Come altro bisognerebbe sceglierlo, un segretario? (il Foglio, 20 febbraio 2009)

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