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Vacca ricorda il ragazzo di Salò passato al “giornalismo integrale”

17/04/2009

Roma. Combattente della Repubblica sociale, direttore del Secolo d’Italia, autore di saggi sulla storia del nostro paese, ma anche studioso di economia. Le agenzie che ieri hanno dato notizia della morte di Giano Accame, avvenuta mercoledì a Roma, lo  definiscono giornalista, storico e scrittore. “Se proprio devi darmi una qualifica, scrivi: economista”, rispondeva lui, in genere, all’intervistatore che glielo domandava. Ma forse la definizione migliore è quella data da Giuseppe Vacca, a lungo dirigente del Partito comunista e oggi presidente dell’Istituto Gramsci, che Accame l’ha conosciuto come commentatore, quando entrambi collaboravano al Sabato, negli anni 90. La definizione (gramsciana) di “giornalista integrale”. Se si preferisce, “giornalista colto”. Un genere a sé, che ha come modelli Giuseppe Prezzolini, Gaetano Salvemini e lo stesso Gramsci. E in tempi più recenti Indro Montanelli, Luigi Pintor, Eugenio Scalfari. “L’intellettuale che considera il giornale uno strumento moderno – spiega Vacca – e per questo lo sceglie, come oggi sceglierebbe forse la Rete”. Ma sempre, appunto, da intellettuale. La differenza con il semplice giornalista, per Vacca, è la stessa che passa tra Luchino Visconti e Federico Fellini: “Fellini è un grande uomo di cinema. Visconti è un grande intellettuale europeo che fa il cinema”.
I suoi primi ricordi di Accame risalgono agli anni Cinquanta. “Avrò avuto diciassette anni. Per cultura e storia famigliare ero, come devo dire, un ‘nostalgico’ della Repubblica di Salò. I primi giornali su cui incontrai la firma di Accame dovevano essere lo Specchio, il Borghese…”. Ma avrebbe continuato a leggerlo anche dopo, da intellettuale comunista che non disdegnava, a sua volta, di “fare il giornalista” (o più semplicemente il commentatore). “Pur essendo molto netto sul tema dell’identità, Accame aveva a suo modo una cultura della mediazione, un approccio direi storico-realistico, due cose che possono benissimo convivere anche con posizioni extra-sistema o addirittura anti-sistema, e che comunque si riverberano nella scrittura”. Non è semplicemente questione di buon carattere, ovviamente, ma dei “pilastri di una cultura nazionale” comune. Un modo di pensare che “all’origine ha a che fare con il neoidealismo, magari per me più Benedetto Croce che Giovanni Gentile, e per lui l’inverso, ma il fondamento comune è chiaro”. Per questo “anche Accame avrebbe potuto dire che Gramsci è parte della cultura nazionale”, come ha fatto Alemanno pochi mesi fa, visitando l’istituto presieduto da Vacca. Non per nulla, intervistati dal Foglio nel novembre scorso su destra e sinistra nella storia d’Italia, il presidente dell’Istituto Gramsci e l’ex direttore del Secolo avevano risposto quasi allo stesso modo. “Prima della Seconda Repubblica avevamo una nomenclatura politica più perspicua di questa banale dicotomia destra-sinistra, che significa assai poco, come dimostra il fatto che il popolo continua a dire sempre i comunisti, i democristiani, i fascisti… io stesso non so mica se sono di destra o di sinistra. So che sono un vecchio comunista togliattiano e gramsciano”, aveva detto Vacca. “Nella ‘Dottrina del fascismo’ di Benito Mussolini, la parola ‘destra’ compare una sola volta, e tra virgolette”, aveva osservato Accame, ricordando come gli stessi missini non si considerassero “la destra”, ma “un movimento di alternativa sociale e nazionale”.
E’ questo comune “modo di pensare” che permetteva ai due avversari di riconoscersi reciprocamente come figli di due culture storicistiche, sia pure l’una “di destra” e l’altra “di sinistra” – dove le virgolette, ovviamente, sono obbligate. “Certo Accame non poteva pensare che criteri di distinzione politica come destra e sinistra, libertà e uguaglianza, si potessero definire secondo un modo di ragionare politologico che prescinde dagli elementi profondi della storia di una nazione, senza vedere come le stesse categorie che adopera si pongano sempre in un rapporto dialettico, e pensando perciò di poter definire identità e distinzioni una volta per tutte… questa è roba per l’azionismo”. Nulla di più lontano da Accame, si capisce. E non solo da lui. (il Foglio, 17 aprile 2009)

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