Il Pd non capisce ma si adegua
Roma. “La direzione del Pd poteva decidere altrimenti, ma visto che ha scelto il ‘sì’ e non è questione etica, io mi adeguo e andrò a votare”. Così dice Enzo Carra. E non è il solo a metterla in questi termini, certo non carichi di entusiasmo. Ma così vanno le cose nel Partito democratico ai tempi del referendum elettorale. “La decisione è stata presa – dice Nicola Latorre – e adesso siamo in campagna elettorale, quindi fino al voto del 7 giugno questo tema non è in discussione”. E dopo? “Dopo potrebbe essere utile un supplemento di riflessione, anche alla luce dei risultati”. Il ragionamento è chiaro: può darsi che il voto segni una sia pur lieve flessione del Pdl, e magari un rafforzamento della Lega, o dell’opposizione. E può darsi che accada il contrario. A seconda dei casi, salirà o scenderà la probabilità che Silvio Berlusconi tenti davvero il “cappotto”: mobilitare il Pdl per il “sì”, mettendo in conto la rottura con la Lega e il voto anticipato, ma con il sistema che uscirebbe dal referendum (premio di maggioranza alla singola lista più votata, e non più alla coalizione).
E’ questo, infatti, il vero timore che turba anche i democratici più allineati al segretario, che giusto ieri, in un’intervista a Repubblica, ha dovuto ribadire la linea con un appello alla disciplina di partito: “Abbiamo discusso, abbiamo votato, abbiamo deciso”. Tra i promotori del comitato per l’astensione, però, c’è un certo Vannino Chiti, che nei Ds era praticamente il numero due di Piero Fassino. Del resto, da quando Berlusconi ha annunciato il suo “sì” e il Pdl ha messo in chiaro che di cambiare la legge dopo il referendum non si discute neanche, nel Pd si sono moltiplicati gli appelli a “più mature riflessioni”. Se si vuole davvero votare “sì” per poi cambiare la legge, dicono in molti, occorre almeno essere ben sicuri che una maggioranza alternativa per farlo ci sia, e che sia d’accordo su come cambiarla. Francesco Rutelli e lo stesso Chiti stanno provando a verificarlo in Senato, con l’Udc, sulla base di un sistema proporzionale con sbarramento, che cancella il premio di maggioranza. “Se Chiti può farcela, forza Chiti”, li incoraggiava ieri Europa. Ma Dario Franceschini, nella sua intervista di ieri, ha già risposto seccamente a Chiti, Rutelli e a tutti coloro che in un modo o nell’altro lo hanno invitato a ripensarci: “Capisco tutto, anche lo spirito costruttivo con cui mi rivolgono questo appello, ma la mia risposta è no”. E’ chiaro però che lo spettro di ritrovarsi con un Berlusconi in grado di stravincere, eleggersi capo dello stato e magari cambiare pure la Costituzione (gli basterebbe l’accordo della Lega), comincia a fare paura sul serio. Facile immaginare, a quel punto, quale processo si aprirebbe a sinistra. Altro che girotondi. Lo stesso Antonio Di Pietro, dopo avere raccolto le firme, si è clamorosamente schierato per il “no”. Ma Franceschini è stato chiaro: la discussione è chiusa. E ora, in campagna elettorale, nessuno può riaprirla. “Piuttosto si tratta di rimediare ai guasti di un eventuale successo del referendum”, osserva Carra, sempre più sconsolato. “Votare ‘sì’ per cambiare la legge”, ripete invece Anna Finocchiaro, che giusto ieri ha accennato a una sua possibile candidatura al congresso di ottobre. E proprio l’imminente congresso spiega molti degli avanti e indietro, dico e non dico, non lo dico ma lo penso di questi giorni. E il paradosso di un “partito nuovo” in cui tanti ripetono il ritornello più antico: “Non capisco ma mi adeguo”. E forse, tra sé e sé, già aggiungono: “Per ora”. (il Foglio, 13 maggio 2009)