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Quando D’Alema era veltroniano

06/06/2009

Roma. Nicola Latorre, che nello staff di Massimo D’Alema è entrato agli inizi del 1998, esclude categoricamente che l’allora segretario del Pds “abbia mai anche solo pensato nulla del genere”. Claudio Velardi, che del documento incriminato era cofirmatario, precisa di non ricordare nemmeno “se D’Alema l’abbia mai letto”. E comunque, conferma, a quella linea D’Alema era “sostanzialmente contrario”. Ma è evidente che il documento in questione, una nota riservata scritta nel 1997 da due tra i più stretti collaboratori del segretario (siglata “fr” e “cv”, Fabrizio Rondolino e Claudio Velardi), è destinata a riaprire un’antica discussione. “Documento inquietante”, lo definisce non per nulla Walter Verini, deputato del Pd e storico braccio destro di Walter Veltroni.
Portato alla luce da Alessandra Sardoni in un libro di prossima uscita (“Il fantasma del leader”, Marsilio), il documento non poteva apparire in un momento migliore, al termine della campagna elettorale e all’inizio di una campagna congressuale che nel Pd si giocherà in buona parte sui temi affrontati in quel testo. E proprio da questo punto di vista, la nota dello staff dalemiano risulta non poco spiazzante. “Il partito, inteso come ceto politico, è un cane morto. Il suo stato è sotto ogni punto di vista desolante”, scrivono Rondolino e Velardi. E poco dopo: “Sarebbe illusorio credere che la nascita della Cosa 2 (la trasformazione da Pds a Ds, ndr) possa diventare l’occasione per una rifondazione del partito, che non può essere rianimato”. E ancora: “Si potrebbe parlare di una crescente ‘staffizzazione’ del Pds”. Ma soprattutto: “Dobbiamo pensare il Pds come una delle componenti del comitato elettorale di Massimo D’Alema”.
Con il gusto del paradosso, il documento si potrebbe intitolare: “Quando D’Alema era veltroniano”. Ma se gli stessi componenti del vecchio staff ne contestano l’attribuzione a D’Alema, non meno netto è il ripudio di qualsiasi primogenitura da parte dei veltroniani. “Oggi (ieri per chi legge, ndr) è l’ultima giornata di campagna elettorale e siamo tutti impegnati per un buon risultato del Pd”, dice Verini. Non è insomma il momento adatto per commentare quel testo, si schermisce il primo consigliere di Veltroni, al suo fianco praticamente da sempre, dai tempi del Campidoglio a quelli del Loft (e delle polemiche sul “partito liquido”, americano e “senza tessere”, sul suo debole radicamento e sulla sua scarsa democrazia interna). Anche perché, aggiunge subito, certamente “ci sarà modo di commentarlo dopo il voto”. E questa è una certezza.
Anticipato ieri dal Corriere della Sera, il documento era corredato da una foto del 1998, in cui si vedeva D’Alema impegnato in una riunione con il suo staff nell’ufficio di Palazzo Chigi. Latorre precisa però che all’epoca del documento (1997) dello staff non facevano parte né lui né Pasquale Cascella (giornalista dell’Unità, ora al Quirinale con Giorgio Napolitano). “E comunque – aggiunge tra il serio e il faceto – io non mi sono mai occupato di strategie così complesse, che mi avrebbero fatto venire il mal di testa, essendo com’è noto un ragazzo semplice”. Per la linea della “staffizzazione” del partito, riconosce Velardi, inclinavano soprattutto lui e Rondolino. “E non altri”. Non Gianni Cuperlo, per esempio, che Velardi ricorda impegnato a sostenere la tesi diametralmente opposta. E cioè che il partito lo si doveva convincere, non distruggere. Quanto a D’Alema, per Velardi era sì “sostanzialmente contrario” a quell’impostazione, ma senza la necessaria energia. “Altrimenti ci avrebbe cacciato”. E invece molti dei suggerimenti contenuti in quel testo D’Alema li seguì, a cominciare dal famoso manifesto per le comunali di Roma, in cui il segretario appariva sorridente, giovane e affabile. Ma in cui non appariva nessun simbolo di partito.
Rinnegata dai dalemiani e respinta dai veltroniani, quella nota del ’97 appare oggi anzitutto come il documento di uno “spirito del tempo”, tanto più prezioso in vista del primo vero congresso che il Partito democratico si appresta a tenere. Efficacissima testimonianza della lunga egemonia esercitata sui giornali, nelle università e persino nei partiti da quello che lo stesso D’Alema ha definito recentemente come una sorta di “liberalismo antipolitico”. Un processo di salutare modernizzazione o invece di omologazione passiva, secondo i punti di vista, che il Pd deve ancora chiarire se è nato per combattere o per portare a compimento. (il Foglio, 6 giugno 2009)

4 commenti leave one →
  1. Ciro Imperato permalink
    06/06/2009 11:48

    Claudio Velardi era è e sarà sempre una merda

  2. adlimina permalink
    06/06/2009 15:59

    sai che difficilmente commento ma questa è irresistible. così apro e trovo che qualcuno l’ha già detto al mio posto. gentaglia. servono altre parole, due tre dettagli, due cosette sulla sua nomina, qualche numero dell’assessorato? no, sono sicura che non servano. basta poco, del resto, a riconoscere il miracolato, perennemente in bilico tra il voler essere e il tormento del sapere di non essere. il solito mimetismo, l’eterno bovarismo del parcheggiato in una delle province dell’impero mentre lui sognava fasti poteri e incoronazioni da ancien régime. fossero solo due le ragioni di questa mostruosa débacle in cui ci hanno sprofondati quaggiù, si chiamerebbero velardi e bassolino

  3. 06/06/2009 19:26

    Il più grande limite di D’Alema è sempre stato quello di contornarsi di piccole persone… Velardi, Rondolino e oggi Latorre.
    E non credo sia un limite da poco.
    Un grande leader deve anche essere in grado di crearsi una successione all’altezza, ma se si pensa che nel PDS il suo posto fu preso da Veltroni…

  4. giancarlo permalink
    11/06/2009 00:57

    A proposito di scheletri nell’armadio: “Dobbiamo scrivere chiaramente nel nostro codice che il partito nuovo nasce il 14 ottobre; il 14 ottobre è il vero 25 aprile” (Walter Verini, Commissione del codice etico del Pd, 13 gennaio 2008). Scrivere in un codice etico che…

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