A cosa stai pensando?
Da tempo mi capita di pensare a un curioso fenomeno che sicuramente sarà già stato osservato, studiato e commentato mille volte da osservatori, studiosi e commentatori più preparati e più svelti di me. Magari nel frattempo è pure finito, già passato di moda, rovesciato nel suo opposto, e a quest’ora gli osservatori più svelti e più studiosi di cui sopra stanno già discutendo dell’esatto contrario. In ogni caso, io la definirei la progressiva privatizzazione dello spazio pubblico su internet. In parole povere, il passaggio dai blog a social network come facebook (e tutte le patologie correlate, tipo friendfeed); dalla pagina accessibile a tutti, propagandata come la nuova frontiera della libertà di espressione e di iniziativa – prima per pubblicare un libro o un articolo dovevi essere uno scrittore o un giornalista, oppure avere molti ma molti soldi, adesso basta un click e chiunque può farlo, eccetera – all’esatto opposto, a un sistema pensato appositamente per non arrivare a tutti, per non essere a tutti accessibile, ma solo alla propria cerchia, e gli altri fuori. Sì, lo so, su facebook si può anche avere un profilo aperto: sto parlando della logica del sistema. Buona parte delle persone che conosco usano la propria pagina facebook esattamente come un blog, in tutto e per tutto, e spesso proprio come prima usavano il loro blog. Prima di scoprire facebook. L’unica differenza è quella: che prima si rivolgevano al mondo intero, almeno in ipotesi, ora solo ed esclusivamente alla loro cerchia di amici. Indipendentemente da quali fossero le loro aspettative quando affidavano le loro riflessioni al blog, la decisione di passare consapevolmente da questo a uno strumento fatto apposta per essere accessibile solo ai propri amici mi pare comunque uno spostamento significativo. E’ un cambiamento di prospettiva non da poco, rispetto a tutta la retorica sull’essenza della “rivoluzione internet”, l’abbattimento di ogni barriera, l’era dell’accesso, e così via. Se si pensa all’attuale dibattito sul ritorno dello stato dopo la grande crisi finanziaria, che è un prodotto della globalizzazione, e ai tanti discorsi sulla globalizzazione che andavano per la maggiore fino a poco prima, a partire dai “ruggenti anni Novanta”, l’impressione è che in qualche modo stiamo girando sempre attorno allo stesso punto.
Già, è vero.
E’ lo smarrimento di fronte alla irrealizzazione dei desideri ripostio a suo tempo sul blog, strumento aperto a tutti ma inaccessibile perché smarrito come una molecola d’acqua in un oceano: i socialrobi consentono di avere lettori fedeli e pigri allo stesso tempo, che ricevono le nostre più o meno sciocche esternazioni in modo “push”. Diventa enormemente più facile condividere idee risapute (chi ci segue sa in anticipo come reagiremo ad una sollecitazione esterna: una notizia, una dichiarazione politica, eccetera), oppure tacchinare-far uscire allo scoperto possibili partner, o ancora provocare reazioni scandalizzate se conosciamo il nostro pubblico (l’elenco lo possiamo redigere tutti). Il premio (gli economisti direbbero l’incentivo) arriva prima, più direttamente, più intenso, e gli ambienti chiusi come i socialrobi vincono.
–> Cass Sunstein, «Republic.com», 2001 (aggiornato in «Republic.com 2.0», 2007)
PS. preso il libro, bello, bravo.