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I compiti per le vacanze di Bersani

10/07/2010

Molte cose si possono rimproverare a Walter Veltroni, nella sua stagione da segretario, ma non si può non riconoscere la coerenza di una linea politica portata avanti – fino alle estreme conseguenze – con incrollabile determinazione, sulla base del giusto principio secondo cui un partito deve prefigurare in sé il sistema politico che propone per il paese. Quel sistema politico, come ben sanno i lettori del Foglio, era un “bipolarismo tendenzialmente bipartitico” fondato sui due grandi partiti “a vocazione maggioritaria”, Pd e Pdl, e sui rispettivi leader. Un progetto di evoluzione americana del sistema, e quindi del Pd, che Pier Luigi Bersani ha sempre contestato (ricordo un memorabile forum con lui, proprio al Foglio, quando fu lanciata la proposta del “partito senza tessere”). Ed è su questo che Bersani ha vinto congresso e primarie. Eppure, su questo, la discontinuità della sua segreteria non pare così marcata.
Come compito per le vacanze, il segretario del Pd potrebbe dunque svolgere il seguente tema: tanto nel governo dei partiti quanto nel governo del paese, prima o poi, chi ne ha la responsabilità di direzione è tentato dalla linea del “chi mi ama mi segua”. E tuttavia, anche tralasciando l’analisi di quanto un simile sentimento sia volubile nei seguaci così chiamati a raccolta, il problema di fondo è che in questo modo, almeno negli ultimi quindici anni, non si è fatta molta strada. Vale per tutti i predecessori di Bersani, e vale anche per Sivlio Berlusconi, che pure ha risorse extra-politiche ben superiori a quelle di un “normale” leader politico. E poi, per la sinistra, c’è un problema più specifico, direi una questione di principio. Se una cosa andrebbe scritta in un manifesto del Pd è infatti proprio questa: da soli non si va da nessuna parte. E nemmeno in “pochi ma buoni”. Anche perché, almeno per chi abbia una certa idea della democrazia, i pochi non sono mai buoni.
Al tema di attualità, Bersani potrebbe quindi affiancare un esercizio di matematica, dimostrando il seguente teorema: dal 1994 a oggi, dati il sistema maggioritario e la crescente personalizzazione della politica, data la spinta all’ampliamento dei poteri del governo a danno del Parlamento, e dei leader politici a danno di correnti e gruppi dirigenti interni, a ciascuna di queste torsioni dello stesso assetto costituzionale della Repubblica (regime parlamentare fondato sui partiti) sono seguite reazioni tali da produrre risultati del tutto controintenzionali – paralisi, ingovernabilità, divisioni interne – che a loro volta hanno alimentato la richiesta di ancora più ampi poteri ai leader, ancora maggiore accentramento, in un circolo vizioso che finora ha fatto giustizia di maggioranze schiaccianti e di ogni altra risorsa politica o extra-politica chiamata a sostenere un simile disegno. Partiti sempre più americani, leggeri e monocratici, si sono frantumati in correnti come nemmeno i socialisti negli anni Venti. Il sogno del “partito senza correnti” si è trasformato – tanto nel Pd quanto nel Pdl – nell’incubo di correnti senza partito, in un processo di atomizzazione che le rende sempre più ingovernabili e autoreferenziali, ben oltre i livelli della famigerata Prima Repubblica. Governi cui la finzione dell’elezione diretta del premier, il premio di maggioranza, l’abuso della decretazione d’urgenza e il meccanismo del maxi-emendamento con fiducia hanno consegnato strumenti di azione liberi da ogni contrappeso sconosciuti a qualsiasi democrazia occidentale si sono rivelati più fragili e impotenti di un monocolore balneare.
Dimostrata così la relazione inversamente proporzionale tra riforme mirate a comprimere gli spazi di discussione ed effettiva governabilità, Bersani potrebbe passare dalla matematica alla filosofia. Tutte le contraddizioni citate hanno infatti un’unica origine, che è la rimozione, a sinistra, dell’idea stessa di conflitto, sociale e politico. Una filosofia che si traduce nella voglia di non litigare con nessuno, quindi nell’incapacità di dire al proprio mondo quel che non vuole sentirsi dire. E ormai si vede a occhio nudo quanto un simile costume dei dirigenti abbia trasmesso alla base, lasciandola senza punti di riferimento e perciò sempre più rabbiosa e scontenta.
Credo di sapere cosa risponderebbe Bersani a quest’ultima osservazione: anni di abbandono, se non proprio di pedagogia autodenigratoria, non si cancellano in sei mesi. Giusto. La strada è ancora lunga.
Ma il tempo è breve. (il Foglio, 10 luglio 2010)

2 commenti leave one →
  1. arsub permalink
    10/07/2010 14:36

    Proprio una decina di giorni su ff mi chiedevo: cosa è cambiato di sostanziale nel PD dall’elezione di Bersani, a parte avere un leader che ci piace certamente di più dei due che l’hanno preceduto? Temo praticamente nulla.

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  1. La libertà era tema d’esame, ecco perché tanti bocciati quest’anno « Blog del circolo online del PD "Barack Obama"

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