L’ossessione del Pd per l’unità interna
25/09/2010

In questo modo il Pd finisce però per minimizzare gli utili e massimizzare le perdite, unendo il massimo della divisione all’esterno con il minimo della chiarezza all’interno. E il risultato ottenuto, un allargamento della maggioranza che sostiene il segretario, anche tra i più accesi sostenitori di Pier Luigi Bersani può suscitare al massimo un moderato “buon per lui”. Ben più forte è invece il rischio che in questo modo, scivolando gradualmente sulle posizioni di Veltroni – del Veltroni segretario, allergico a ogni forma di dibattito interno, s’intende – Bersani finisca per fare il gioco dei suoi più sguaiati contestatori. Si guardi alla sequenza dei fatti: prima una riunione del vertice (compreso Veltroni) che si chiude tra baci e abbracci, il giorno dopo il documento veltroniano con gli attacchi alla segreteria e la spaccatura della stessa minoranza, infine la direzione in cui tutti si vogliono più bene di prima. Non ci vuole un indovino per prevedere che la pace non durerà molto, e che una simile dinamica, alla lunga, produrrà solo la delegittimazione degli organismi dirigenti e di coloro che ne fanno parte. A tutto vantaggio di chi, come Matteo Renzi, sostiene chiaramente e semplicemente che vadano “rottamati” tutti. Una posizione che potrà non piacere, ma alla fine di una simile fiera è lì che si va a parare, se non si ha il coraggio di alzare la posta, e anche il livello della discussione. Dire “adesso basta parlare di noi, torniamo a parlare dei problemi degli italiani”, come fa Bersani, non è quello che ci vuole. Anche questa è una forma di autodelegittimazione, come se davvero il dibattito interno al Pd niente avesse a che fare con i problemi degli italiani, e fosse solo questione di rivalità personali, antipatie e bisticci.
Il problema è che l’ossessione dell’unità interna e l’attenzione esclusiva ai sentimenti e alle reazioni della “propria gente” producono naturalmente la stasi e la conservazione. Ma nel momento in cui “la propria gente” e il proprio partito rappresentano appena un quarto del paese, è chiaro che l’obiettivo non può essere quello di limitarsi a “mantenere le posizioni”. Né le posizioni sul campo, intese come insediamento sociale e territoriale tradizionale, né le posizioni politiche (che a volte, oltre che minoritarie, sono anche sbagliate). Portare il Pd fuori da questo circolo vizioso è compito del suo gruppo dirigente e del suo segretario. Se non saranno loro a farlo, e a farlo con idee nuove, frutto di un dibattito aperto e libero, a farlo saranno allora facce nuove, con le solite vecchissime idee e senza nessun vero dibattito. Ma solo nuove primarie, nuovi sondaggi e magari anche un nuovo talent show prodotto per l’occasione. (il Foglio, 25 settembre 2010)
2 commenti
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Ma se Veltroni e Bersani e chi per loro non riescono a strutturarsi in sinistra e destra interne, con differenze chiare e distinte, forse vuol dire che ‘ste differenze non ci sono. Vuol dire che idee strutturate non ne hanno.
E questo spiega la necessità della rottamazione: se non sono capaci di portare avanti il cosiddetto dibattito interno, libero e aperto, evidentemente ‘sto dibattito lo devono fare altri.
E quindi: se tutto questo le facce vecchie non lo hanno saputo fare, perché escludere che lo sappiano fare le facce nuove? E se non loro, chi?
La già citata classe dirigente del partito? Di nuovo? Ma dal post stesso si evince che non è stata capace né di rinnovamento né di dialettica.
Escluse le facce nuove, screditate le facce vecchie, la conclusione è che il PD non ha senso, allora. E’ un’idea, però va detta chiaramente.
se le facce nuove sono ciwati o serracchiani, ‘ma anche’ renzi mi sparo e vuol dire che ho sbagliato tutto nella mia militanza a sinistra e per una sinistra NON demagogica, NON populista, NON nuovista. ma semplicemente con un’idea di società precisa e un’idea di riformismo che sa quali interessi interpretare e quali non .