“Avanti popolo”, lo spettro del Pci in mostra
“Avanti popolo”, recita orgogliosamente il titolo della mostra, sul cartoncino stampato per l’inaugurazione. A seguire, però, nessuna riscossa. “Il Pci nella storia d’Italia”, si limita a dire il sottotitolo, incurante del fatto che Silvio Berlusconi e le probabili elezioni tentino ancora una volta di riportarlo nell’attualità.
Organizzata da Istituto Gramsci e Fondazione Cespe, il 14 gennaio si apre dunque l’esposizione commemorativa di un partito scomparso ufficialmente vent’anni fa, ma ancora sulle pagine di tutti i giornali, e non solo in quelle della cultura. A Roma, alla Casa dell’Architettura, la mostra sarà aperta fino al 6 febbraio. Ma questa sarà solo la prima tappa di un lungo giro d’Italia, sulle orme di quello che fu lo storico insediamento del Pci. In un certo senso, un grande, solenne funerale itinerante. Un lungo corteo che probabilmente non vedrà accorrere attorno a sé le masse piangenti dei funerali di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer, ma che qualche corda profonda sembra ancora capace di toccarla. In fondo, lo spettro del Pci non ha mai smesso di aggirarsi per l’Italia. E chissà che proprio questa solenne celebrazione non permetta di elaborare il lutto, lasciando quel venerabile fantasma finalmente libero di aggirarsi per biblioteche e libri di storia, abbandonando una buona volta giornali, telegiornali e talk show.
D’altronde, è nota l’attenzione maniacale rivolta sin dai primissimi anni al gravoso compito della propria autostoricizzazione, da parte di Palmiro Togliatti e del primo gruppo dirigente del Pci. La loro autentica ossessione perché quella storia s’inserisse saldamente dentro la storia del paese. La cura meticolosissima per la storia del partito, intesa anzitutto come prova della nobiltà dei suoi natali, e dei conseguenti titoli di discendenza (operazioni condotte anche con considerevole disinvoltura, come per la famosa genealogia dell’idealismo italiano De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci).
Tutto questo era probabilmente la naturale conseguenza di una cultura storicistica, ma certo anche di un fortissimo sentimento che potremmo definire forse amor proprio, inteso però come sentimento collettivo, come coscienza della funzione e dell’importanza – storica, appunto – di quel che era, faceva e rappresentava il partito nel suo insieme, anche nei momenti più cupi. Persino nei momenti del massimo isolamento e della più dura persecuzione, con buona parte dei dirigenti in carcere e gli altri in esilio, pochissimi iscritti, pochissimi collegamenti e rarissimi contatti con il paese. Eppure sempre pienamente cosciente, al vertice come alla base, del proprio essere parte di una storia molto più grande. E forse il maggiore elemento di discontinuità, la prova che quella storia è proprio finita, sta tutta qui: oggi, i partiti, gli anni se li calano. Allora, se li aumentavano. Ma questo fa parte di quei cambiamenti nella formazione e nel costume dei gruppi dirigenti che all’inizio degli anni Novanta, con il passaggio dallo storicismo al nuovismo, erano già ampiamente consolidati, prima ancora che il Pci cessasse di esistere.
Da questo punto di vista, anzi, la prima grande iniziativa sulla storia del vecchio partito rappresenta davvero una significativa novità, dopo tanti anni di così intensa, consapevole rimozione del passato. Una novità dovuta però più che altro alla tenacia di Ugo Sposetti, ultimo tesoriere dei Ds, da tempo impegnato nella cura e nella conservazione del patrimonio di famiglia, che non è fatto solo di immobili, ma anche di un’infinita serie di cimeli, bandiere, giornali, giornaletti e chincaglieria varia, mescolata ad autentici gioielli. Roba che non sempre è facile strappare, nonostante tutto, ai legittimi proprietari. Come la prima bandiera del Pci gelosamente custodita dai livornesi, che dopo un po’ di preghiere l’hanno infine concessa alla mostra, ma poi la rivogliono indietro, e di affidarla alle cure di Sposetti e delle sue fondazioni non vogliono saperne. Roba che non è sempre facile da esporre, come l’immensa bandiera che si stagliava su via delle Botteghe Oscure, e per stenderla e ripiegarla occupava un corridoio intero. O come gli originali dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, probabilmente il pezzo più prezioso di tutta la collezione.
Certo è che a parlarne così – come di cose, appunto, da museo – fa un po’ impressione. Chissà, forse è anche merito di Berlusconi (o colpa, fate voi), ma parlando di una mostra del Pci viene anche fatto di chiedersi: di già? E’ davvero passato di già così tanto tempo? Perché poi la vera domanda alla fine è una sola, e cioè se questa mostra sia possibile solo oggi perché solo oggi, con il Partito democratico, quella storia è davvero compiuta, finita e archiviata; o se invece è possibile ancora oggi, perché non lo è affatto, compiuta, finita e archiviata. E se la condizione non proprio entusiasmante del Pd di tutto questo sia la causa, la conseguenza o entrambe le cose.
Visto che la mostra tratta però del Pci nella storia d’Italia, bisognerebbe chiedersi qualcosa anche della storia d’Italia senza il Pci, dal 1991 in poi. Quella storia che in fondo, dopo gli conquassi del 92-93, comincia con Berlusconi. Impossibile pensare a una mostra dal titolo “Il Pds, i Ds e il Pd nella storia d’Italia” (o anche, simmetricamente, “I Popolari, l’Asinello, la Margherita e il Pd nella storia d’Italia”). Una mostra intitolata “Berlusconi nella storia d’Italia” – oppure, ancor meglio, “Il berlusconismo nella storia d’Italia” – invece sì, fila eccome, e forse bisognerebbe anche farla.
Le prevedibili polemiche che accompagneranno la mostra sul Pci, o almeno quelle che nasceranno dentro il Partito democratico, dovrebbero partire dalla consapevolezza di questo problema. E il problema è che un partito, come ha scritto Giuseppe Vacca, può anche scomparire, ma la cultura politica di cui quel partito era espressione può sopravvivergli molto a lungo. Se aveva un senso e una base reale, s’intende. Insomma, da questo punto di vista, volendo, si può forse dire che il Pci non è mai morto. Ma i Ds, allora, non sono nemmeno nati. Agitare lo spettro della rinascita dei Democratici di sinistra fa ridere, come farebbe ridere parlare di rinascita della Margherita, o di uno qualsiasi dei mille contenitori che si sono succeduti dagli anni Novanta a oggi, e che fa specie persino chiamare partiti. Figurarsi se simili partiti usa-e-getta, biodegradabili, tagliati su misura del leader di turno, potevano avere un rapporto di qualsiasi tipo con la storia, sentire l’esigenza di elaborare un collegamento tra le vicende della propria organizzazione e quelle del proprio paese, e addirittura del mondo. Per questo oggi sarebbe semplicemente impossibile – peggio, sarebbe grottesco – farne una mostra. Il Pci invece questa esigenza la sentiva, eccome. Ed è per questo che la sua storia ha senso e ha un senso, anche oggi, farne la storia.
Non per nulla la data scelta per questa prima, grande commemorazione ufficiale, tra le tante possibili, è stata proprio il 2011. L’anno cioè in cui il novantesimo dalla fondazione e il ventesimo dallo scioglimento del partito coincidono, togliattianamente, con il centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Ma il gioco delle date e delle coincidenze, volendo, si potrebbe spingere anche più in là, con la mostra che si aprirà proprio nel giorno in cui a Mirafiori gli operai finiranno di votare sull’accordo proposto da Sergio Marchionne. E chissà che qualcuno non abbia pensato anche a lui, al manager dei due mondi, acclamato oggi anche da tanti ex comunisti, issando all’interno del percorso espositivo quella famosa citazione di Togliatti, tratta da un suo discorso all’Assemblea Costituente: “La classe operaia italiana ha dato la prova di saper camminare sul solco aperto dal Conte Camillo Benso di Cavour”. Ed è difficile dire se a farla apparire così dolcemente, irrimediabilmente datata, sia oggi più il riferimento alla classe operaia, o quello al Conte di Cavour. (il Riformista, 9 gennaio 2011)
Chissà che incubi il Berlusca se gli si facesse vedere questa mostra…
R.I.P …o giuro che chiamo l’esorcista…
verrò a vedere la mostra e cercherò di non commuomermi , certo chi à messo la foto di d’alema e veltroni ha voluto fare una cattiveria alla mostra(che centrano loro con la storia comunista? )