L’auspicabile tramonto del tele-leaderismo
A seguirla sui giornali, la vera novità di questa ennesima polemica sull’occupazione berlusconiana della tv sta tutta qui: che non si riesce a capire se il motivo dello scandalo (e delle multe comminate dall’Agcom) sia un’unica intervista andata in onda allo stesso tempo su cinque telegiornali diversi, cinque diverse interviste trasmesse da altrettanti tg o addirittura un solo videomessaggio preregistrato e poi distribuito alle varie redazioni. Ospite di Porta a Porta, mercoledì sera, Silvio Berlusconi ha spiegato che non solo si è trattato di normalissime interviste, ma che l’improvviso affollamento è stato causato dall’inguaribile gelosia professionale dei direttori, che non hanno voluto saperne di attendere ciascuno il proprio turno, nonostante le accorate preghiere del presidente del Consiglio. Stupisce che nemmeno il direttore del Tg4, suo intimo amico, lo abbia accontentato. Ma soprattutto stupisce che a leggere i giornali quel piccolo dettaglio – se si trattasse cioè di un’intervista o di un monologo – non si riesca a capire. Tanto da far venire il sospetto che la differenza non appaia più molto importante, o non appaia affatto, nemmeno agli occhi dei giornalisti.
A pensarci, tra giornalisti e politici, è ormai molto più facile che volino insulti piuttosto che una sola, fugace domanda. E forse non è un caso. Al tempo della tv in bianco e nero, i giornalisti esibivano verso i politici ben altro rispetto, persino ossequio. Anche quando il cronista del giornale socialdemocratico, formulando la sua domanda durante la tribuna politica con Palmiro Togliatti, gli imputava sostanzialmente tutti i peggiori crimini dell’Unione sovietica, lo faceva comunque dentro un codice, una sorta di galateo istituzionale che oggi suonerebbe quasi ridicolo, e si attirerebbe certamente l’accusa di servilismo. Ma anche la risposta del segretario del Pci, sprezzante nella sostanza, non era allora meno cortese e rispettosa nel tono. Oggi si prenderebbero a insulti, oppure si eviterebbero, limitandosi l’uno a monologare in presenza di giornalisti accondiscendenti, l’altro ad accondiscendere silenziosamente al monologo di altri leader politici.
Può darsi che allora i giornalisti fossero comunque meno liberi e indipendenti. Certo però era difficile non provare disagio, mercoledì sera, ascoltando Berlusconi ripetere la tesi secondo cui avrebbe chiesto personalmente il rilascio di una minorenne marocchina già varie volte ospite in casa sua, la famosa Ruby Rubacuori, semplicemente perché convinto che fosse la nipote di Mubarak. Sentirgli ripetere che aveva telefonato alla questura di Milano per evitare una crisi diplomatica con l’Egitto.
Forse anche questo è un effetto della personalizzazione della politica, e non è casuale che in quella stessa trasmissione Berlusconi abbia praticamente scaricato i suoi candidati al ballottaggio, e cioè proprio coloro che con la sua “occupazione della tv” avrebbe dovuto sostenere. Ma se tutto si regge sul leader, dunque sulle sue qualità personali, la sua infallibilità non può essere messa a rischio e tanto meno in discussione, e se i conti non tornano qualcun altro deve pagare la differenza per lui. E chissà se all’uscita di scena di Berlusconi, di cui si torna a parlare in questi giorni, con timore o con speranza, si accompagnerà anche il superamento di questo modello di leadership e di comunicazione politica.
Non è detto che tale modello sia la conseguenza inevitabile dello sviluppo tecnologico, della televisione e dei tempi. Non è detto, insomma, che questa sia l’unica modernità possibile, o la sola vincente. Ma è difficile fare previsioni in questo campo. All’epoca della tv in bianco e nero, per dirne una, Guido Gonella incolpava la Rai di avere portato Togliatti e le ballerine “nel cuore degli italiani”. Ma quelli, si sa, erano altri tempi. Altri italiani, altri politici, altre ballerine. (il Messaggero, 27 maggio 2011)