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La dittatura dei secchioni

25/05/2011
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Intervistato su Repubblica per commentare il giudizio di Standard & Poor’s sull’Italia, Jean-Paul Fitoussi ha detto che non tocca alle agenzie di rating indicare le riforme da fare; che nulla sappiamo degli economisti che ci lavorano e dei loro metodi; che le suddette agenzie hanno avuto le loro responsabilità nella crisi, per cui “non hanno pagato un soldo né subito riforme o regolazioni”; che i paesi sottoscrivono gli “abbonamenti” perché così fan tutti e perché “sarebbe ancora più rischioso restare fuori dal giro dei rating”, ma “non è un vero auditing perché manca la responsabilità che è legata a questa funzione”.
Giusto la settimana scorsa, sostenevamo qui che gli istituti di sondaggi stanno ai partiti come le agenzie di rating alle società per azioni. Ma il parallelo funziona anche meglio con gli stati. Visti i risultati delle elezioni amministrative, in ogni caso, un fatto è certo: giornali, telegiornali e talk-show, fino al giorno prima del voto, avevano un timbro assai diverso da quello che hanno assunto dal giorno dopo. Fatto curioso, considerando quanta parte di essi sia ormai occupata da sondaggi. Tutto questo instancabile sondare e auscultare l’opinione pubblica, che ha ormai di molto superato i confini dell’accanimento terapeutico, ha alimentato per mesi un dibattito che ci appare oggi, tutto a un tratto, semplicemente anacronistico. Un cambiamento che l’esito dei ballottaggi potrà accelerare o rallentare, ma non cancellare, perché il sindaco uscente di Milano non perde di sei punti al primo turno per un’uscita sbagliata in campagna elettorale, e nemmeno perché ha governato male: in altri tempi, non gli sarebbe bastato dare fuoco alla Scala. La verità è che il cambiamento è stato coperto e opacizzato proprio da questo continuo scandagliamento demoscopico, che avrebbe dovuto, invece, prevederlo.
Eppure tutti i partiti sottoscrivono gli “abbonamenti” agli istituti di sondaggi, che poi li giudicano su giornali e televisioni, per lo stesso motivo per cui gli stati fanno altrettanto con le agenzie rating. Il cuore del problema non è però il conflitto di interessi, né la pretesa di scientificità, peraltro difficilmente conciliabile con la promozione a pieni voti di Lehman Brothers fino a un minuto prima del fallimento, e con tutti i leader politici che negli anni, fidandosi dei sondaggi, si sono sbilanciati in pronostici e spacconate che la realtà ha regolarmente smentito. Anche a distanza di poche ore, nel caso degli exit poll, la cui inattendibilità è divenuta giustamente proverbiale: possibile che a nessuno sia venuto in mente che l’unica differenza tra gli exit poll e ogni altro genere di sondaggio politico stia nel fatto che per gli exit poll, molto semplicemente, c’è la controprova?
Il limite principale di tante forme di analisi economico-politica è forse l’incapacità di pensare il cambiamento, il salto di paradigma. E in questo, probabilmente, c’è anche un aspetto sociologico, una conseguenza della divisione del lavoro e della sua crescente specializzazione. In breve, il problema è la dittatura dei secchioni. Di fatto, la sempre più limitata estensione del campo di studi, necessaria al raggiungimento di elevatissimi standard di specializzazione nel tempo più breve, finisce per produrre una sfilza di giovanissimi automi, che ripetono le formulette dei loro manuali con lo stesso tono con cui un talebano cita il Corano. Il tipo di studente che a ogni obiezione risponde: “C’è scritto sul libro”. E’ questa “religione del manuale” (e spesso del bignamino) che in più di vent’anni ha formato la forza lavoro che oggi popola società di rating e istituti di sondaggi, aule universitarie e giornali. E meno male che viviamo in un’epoca post-ideologica.
Basta vedere il modo in cui tanti sostenitori della tesi secondo cui il problema dei giovani è un mercato del lavoro bloccato da una legislazione ostile all’impresa (eccetera eccetera), analizzano oggi il tracollo di Zapatero in Spagna, dopo averlo portato a esempio di una sinistra moderna e liberale, che si concentrava sui diritti civili (forse anche un po’ troppo, va bene, ma non si può avere tutto), seguendo in compenso le ricette economiche più ortodosse. Come spiegare che il risultato di un così bravo scolaro, come già accaduto con il governo irlandese e con tanti altri “primi della classe” di destra e di sinistra, sia più o meno la bancarotta? La risposta non è granché innovativa (all’Hotel Lux girava già negli anni Trenta) e si può riassumere così: la linea è giusta, è stata solo applicata male. (il Foglio, 25 maggio 2011)

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  1. uqbal permalink
    25/05/2011 19:40

    Secondo me questo post comincia molto bene e poi si perde per strada. Vero che oggi i politici, nella loro cecita’ si affidano ai sondaggi come ad un salvagente.

    E’ anche vero che la gente si affidava ai medici gia’ molti millenni prima che la medicina avesse una qualche relazione con le malattie che curava. Difficile sottrarsi a qualcosa che da’ proprio l’impressione di star facendo qualcosa di concreto.

    Non credo che pero’ bisognerebbe fare di tutta l’erba un fascio: esistono anche rilevazioni demoscopiche serie, analisi che vanno un po’ oltre il bilancino del compianto Mosca.

    La parte sui secchioni e’ inconsistente. La parte su Zapatero contraddittoria:

    Molta della fuffa che imperversa in Italia poi e’ manipolata all’origine: Berlusconi usa i sondaggi come augurio e come martello elettorale, non come dato.

    Se poi i sondaggi dicevano che i giovani spagnoli si lamentano del mercato del lavoro, e tre righi sotto si dice che Zapatero e’ stato fallimentare proprio nelle politiche sul lavoro (perche’ troppo aderente alla vulgata neo-liberista), beh, allora i sondaggisti ci hanno preso alla grande.

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