Per una riforma razionale
Non mi piace la battaglia politica fatta con pettegolezzi, insinuazioni e piagnistei. Per me, si tratti di giocare a pallone con i compagni di classe o di riformare la Costituzione con l’opposizione, vale sempre la stessa regola: il capitano della squadra avversaria se lo scelgono gli avversari. Punto. Detto questo, e detto anche che su trasformazione del Senato in camera delle autonomie non elettiva e revisione del Titolo quinto sono più che d’accordo, mi pare che la discussione sulla legge elettorale sia profondamente irrazionale, ideologica e contraddittoria. Tutto il contrario di quell’approccio pragmatico e riformista che Renzi rivendica e che ha inaugurato, sorprendendomi non poco, sul piano del lavoro. Non so se questa novità sia dovuta anche al fatto che rispetto a qualche anno fa non aveva più Pietro Ichino come consigliere, o se si tratti solo di un ripiegamento tattico che verrà presto smentito da un ritorno al mantra della flessibilità e del “modello Marchionne”, ma ho l’impressione che il carattere dogmatico e contraddittorio del dibattito sulla legge elettorale sia dovuto a un problema simile.
Tutto ruota attorno a una serie di affermazioni apodittiche del tutto controintuitive che in questi vent’anni sono state imposte dal solito circolo dei dottor Frankenstein dell’ingegneria elettorale e costituzionale. Un ricettario di formule e formulette che è solo l’altra faccia della medaglia rispetto al consueto rosario di chi dice che per creare lavoro bisognava facilitare i licenziamenti, per combattere le diseguaglianze bisogna privatizzare tutto, per rilanciare la crescita bisogna mettere al bando qualsiasi forma di intervento dello stato nell’economia. I ritornelli sul proporzionale che favorirebbe i piccoli partiti e il premio di maggioranza che favorirebbe la governabilità sono l’ultimo e più tenace residuo degli anni 90. Intendiamoci: vale lo stesso per il doppio turno invocato dalle varie minoranze del Pd, un sistema che incentiva la frammentazione e che nell’Italia di oggi avrebbe altissime probabilità di produrre risultati random, tipo quello delle presidenziali francesi del 2002 (o anche, più semplicemente, delle ultime comunali di Parma).
Se non si rottama questo modo di ragionare, non ne usciremo mai. Voglio dire: vi pare che in questi venti anni di leggi maggioritarie e di premi di maggioranza smisurati sia mancato ai piccoli partiti il potere di veto? Vi pare che abbiamo avuto “governabilità”? Vi sembra che negli ultimi tre anni, con una legge che aveva un premio di maggioranza di proporzioni tali da essere stato appena dichiarato incostituzionale, ci siano mancate le larghe intese? La vera anomalia italiana, la mostruosità prodotta dai nostri dottor Frankenstein e sconosciuta a qualsiasi democrazia occidentale si chiama “coalizione”: in tutte le democrazie occidentali gli elettori votano per i partiti, non per le coalizioni. Chi vi sembra che abbia ragione? La verità è che è proprio attraverso coalizioni e premi di maggioranza che in questi venti anni hanno proliferato partiti non piccoli, ma addirittura inesistenti, praticamente senza voti a livello nazionale, che in nessun sistema democratico sarebbero entrati in parlamento e che in Italia – proprio grazie a questi meccanismi – hanno fatto nascere e cadere governi.
Quello che mi irrita, soprattutto, è l’irrazionalità della discussione, il feticismo del maggioritario. E’ come se si dicesse: piuttosto che rinunciare allo strumento, rinuncio all’obiettivo. Perché il bello è che sugli obiettivi siamo tutti d’accordo. Volete un sistema normale, in cui in parlamento entrino pochi grandi partiti, partiti veri, con un consenso reale? Benissimo. Basta una riforma dei regolamenti parlamentari che si fa in un minuto (se poi la volete costituzionalizzare meglio ancora) che dica che in parlamento si possono formare solo quei gruppi che corrispondono a nomi e simboli presentati alle elezioni. In altre parole, i partiti non possono nascere in parlamento: se un gruppo si spacca, la minoranza se ne va nel gruppo misto e tanti saluti. A questo punto, salvo interventi “cosmetici”, non c’è nessun bisogno di cambiare il Perfettum uscito dalla sacrosanta sentenza della Corte costituzionale. Con lo sbarramento al quattro per cento, nessuna coalizione e nessun “premio” in cui intrupparsi, senza la possibilità di separarsi in parlamento un minuto dopo il voto, ai piccoli partiti non resterebbe che una strada: mettersi insieme per provare a costruire uno o due partiti veri, capaci di superare il 4 per cento e poi capaci di restare insieme come tali l’intera legislatura.
Quanto alla “governabilità”, in un parlamento in cui ciascun partito fosse eletto in base al suo programma e alla sua leadership, senza ammucchiate e pasticci, sarebbe certo parecchio superiore a quella che abbiamo avuto finora. Senza contare che grazie allo sbarramento al 4 (senza nessun “diritto di tribuna”) è evidente che un “effetto maggioritario” ci sarebbe eccome, ma sarebbe proporzionale ai voti presi dai diversi partiti, senza arbitrarie deformazioni. Certo, tanto in campagna elettorale quanto all’indomani del voto, resterebbe la necessità di fare un po’ di politica. Ma se pensate che esista un sistema elettorale capace di assicurare la “governabilità” a un solo partito, senza bisogno di accordarsi con nessuno, all’indomani di un voto che attribuisse alle prime tre forze 25, 25 e 25 per cento, come è accaduto alle ultime elezioni, è tempo che qualcuno ve lo dica: quello che state cercando non è compatibile con alcun sistema democratico.
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