L’«arma della memoria», a doppio taglio
Non è facile discutere di uso politico della storia. A ricordare che la storia è sempre un’interpretazione dei fatti – e come tale sempre discutibile – si rischia di passare per cinici senza principi, capaci di giustificare qualsiasi manipolazione. A sostenere, al contrario, che l’unica differenza che conta è quella tra verità e menzogna, si rischia di passare invece per ingenui, nella migliore delle ipotesi, e nella peggiore per invasati. D’altra parte, l’idea che possa esistere un’unica, asettica e indiscutibile versione “storicamente corretta” di un qualsiasi avvenimento, rispetto alla quale tutte le altre non sarebbero che falsificazioni propagandistiche, è la tesi di tutti i regimi totalitari del mondo. È esattamente l’argomento con cui da sempre si giustifica la censura e la repressione del dissenso. L’arma della memoria, titolo del nuovo libro pubblicato con Rizzoli da Paolo Mieli, è insomma un’arma a doppio taglio. Il rischio di cadere nell’uno o nell’altro eccesso è ineliminabile, perché connaturato al mestiere stesso dello storico, come a quello del giornalista. Due mondi che l’autore conosce bene.
Di solito, quando si cerca di alzare lo sguardo, spaziando per discipline e argomenti diversi, si incorre facilmente nelle scomuniche degli specialisti dell’uno o dell’altro campo. È una forma di snobismo antica come la società di massa, del resto non sempre ingiustificata. «È un uomo importante che passa per un grande finanziere negli ambienti politici e per un grande politico negli ambienti finanziari», ironizzava un personaggio della Recherche. Non è evidentemente il caso di Mieli, capace di raccogliere uguali riconoscimenti in ambiente accademico e giornalistico, sia come storico sia come commentatore, analista e direttore di quotidiani (anche più d’uno alla volta, a quanto si dice), abituato a esprimersi con la stessa naturalezza sulla carta stampata come in televisione, con una versatilità che ricorda, in altri campi, quella di Walter Veltroni, cui lo unisce peraltro la stessa passione per la memoria e per le forme del suo racconto.
Storia, politica e giornalismo sono del resto territori confinanti, e questo libro ne è la migliore dimostrazione, tanto che si potrebbe definirlo sia un agile libro di storia scritto da un giornalista, sia una densa raccolta di articoli di giornale scritti da uno storico. In ogni caso è un libro che parla innanzi tutto di politica, direttamente o indirettamente, come è inevitabile quando si tratta di memoria, dei suoi meccanismi di trasmissione e delle relative dinamiche di legittimazione del potere.
Non per niente, la «reinvenzione del passato» di cui parla Mieli ha qualcosa a che vedere con quella «invenzione della tradizione» di cui parlava un altro e non meno autorevole storico dell’età contemporanea, Eric Hobsbawm. E anche a lui, a suo tempo, fu obiettato che non è così facile distinguere tra tradizioni “genuine” e “inventate”, essendo la tradizione, per definizione, un parto della mente e della parola degli uomini. Ma siamo ben consapevoli che queste sottigliezze non reggerebbero un minuto il confronto con il senso comune dell’uomo della strada, secondo cui una balla resta sempre una balla, e compito dello storico, come del giornalista, dovrebbe essere quello di smascherarle.
A questo compito Mieli si dedica con passione da molti anni, tanto come storico quanto come giornalista. L’unica cosa che gli si può rimproverare è di privilegiare, in questa continua e meritoria opera di fact-checking, le manipolazioni e le deformazioni propagandistiche utilizzate dal Pci (e dai suoi eredi). Le critiche ai tanti eccessi dell’anti-craxismo o dell’anti-berlusconismo rappresentano per il lettore di sinistra una preziosa medicina contro ogni forma di manicheismo. È un peccato che Mieli non offra lo stesso vaccino anche ai lettori dell’altro fronte, forse non meno bisognosi. Del resto, non pare che abbiano retto così bene alle repliche della storia, per fare solo due esempi, la riscoperta dell’anarchico Proudhon al posto di Karl Marx come padre del socialismo (da parte di Craxi, in polemica col Pci), o la pretesa berlusconiana di essere l’erede di De Gasperi, ultimo baluardo contro la minaccia comunista incombente sull’Italia degli anni novanta.
Questo è l’unico appunto che ci sentiamo di fare al libro, senza nulla togliere all’appello contro la manipolazione storica, che Mieli ci invita tutti a combattere. Un richiamo da accettare senza riserve, purché accompagnato da una ragionevole dose di autoironia, per evitare il rischio di trasformare storici e giornalisti in giustizieri al servizio del senso comune. Cioè al servizio dei potenti, se è vero che nella società di oggi, come il libro ci insegna, la formazione della memoria, e quindi del senso comune, è il principale terreno di confronto nella lotta per il potere. Attenzione dunque agli indignati permanenti secondo i quali, a dispetto del liberale Mieli, più che della «reinvenzione del passato» dovremmo preoccuparci della «invenzione del presente» da parte dei mass media, perché la fanno troppo facile. Ma attenzione anche a quei filosofi capaci di sostenere, con buona pace del marxista Hobsbawm, che la politica e forse la stessa vita umana è sempre una continua «invenzione della tradizione», perché la fanno troppo complicata.
Insomma, tra la paranoia dei complottisti del web e l’ingenuità non sempre disinteressata dei teorici della verità unica, il libro del “terzista” Mieli rappresenta per noi anzitutto un invito a cercare una terza via. Per sconfiggere le manipolazioni degli imprenditori della paura senza perdere la tenerezza che nasce dal senso della storia, e anche dal senso dell’ironia.
(L’Unità, 1° novembre 2015)