Dove sono finite le donne nude di una volta
La notizia che a partire da marzo Playboy rinuncerà a pubblicare nudi integrali è stata commentata in molti modi. Nessuno ci pare però aver messo in dubbio la motivazione offerta dall’amministratore delegato del gruppo, Scott Flanders (sorvoliamo sull’ironia del fatto che l’amministratore di Playboy si chiami come la donna perduta del romanzo di Defoe, supponendo di essere gli ultimi ad accorgercene). In poche parole, la rivista sarebbe «vittima del suo successo»: stravinta la battaglia contro il comune senso del pudore, ora che su internet chiunque può accedere a ogni tipo di immagine erotica desiderabile, il celebre paginone centrale risulterebbe obsoleto. Ma siamo proprio sicuri che la spiegazione sia così semplice?
Per decenni, in Italia, non c’è autorevole settimanale d’informazione, dall’Espresso a Panorama, che non esponga regolarmente una donna nuda in copertina. Il pretesto spesso è talmente esile da ottenere un involontario effetto comico, come nel caso di un servizio sul problema del traffico nelle grandi città, illustrato da una donna nuda con delle automobiline poggiate sul corpo (in punti rigorosamente non-strategici, s’intende). Nel suo primo numero, 16 gennaio 1989, Cuore dedica al problema versi immortali: «T’ho visto con sei culi in copertina/ e titolavi: Dove va la Cina?». Per poi dedicargli un’intera rubrica: Piazza Affari, Borsino delle principali notizie sui settimanali che fanno opinione. «Un’analisi rigorosa che diventa competizione lungo l’intero ’92», ricorderà il fondatore, Andrea Aloi (Non avrai altro Cuore all’infuori di me, Rizzoli). «Alla fine la spunterà Claudio Rinaldi, il suo Espresso collezionerà 244 tette e 100 paia di chiappe, battendo di un’incollatura il Panorama di Andrea Monti».
Ma non è solo questione di direttori, evidentemente, né di testate. È una questione economica: basta sgarrare una settimana per vedere subito la flessione nelle vendite. Poi, ben prima di internet e della crisi di Playboy, dev’essere cambiato qualcosa, fatto sta che le donne nude in copertina sono diventate molto più rare.
Una cosa comunque è certa: esibire donne nude in copertina, in un film o in uno spettacolo teatrale è stato di sinistra prima di essere di destra, è stato femminista prima di essere maschilista (e poi, forse, di nuovo femminista). Le convenzioni sociali intorno alla nudità cambiano ripetutamente, e non sempre nella stessa direzione. Già nel 1969, il giovane intellettuale di Fiore di cactus, alla domanda su che genere di commedie scriva, risponde: «Di avanguardia. Sai, gli attori non si levano neanche i vestiti, ma ho paura che il pubblico si scandalizzerà». E pensare che fino a non molti anni prima, gli anni dell’Espresso in bianco e nero, alle foto delle discinte attrici di Broadway toccava prolungare i capelli col pennarello, affinché coprissero almeno i capezzoli. Poi verranno i premi per le 244 tette e dopo ancora, ma forse un po’ anche prima, le polemiche contro il berlusconismo che mercifica il corpo delle donne e nelle sue televisioni ne diffonde un’immagine volgare e oggettificata. Insomma, per capirci qualcosa, ci vorrebbe uno scienziato. Non per niente è merito di Anna Meldolesi, che sul Corriere della sera scrive regolarmente di cultura e attualità scientifica, se molte delle nostre lacune sono state finalmente colmate con un libro divertente e illuminante, dal titolo – ingannevole quanto la copertina di un settimanale di informazione degli anni 80 – Elogio della nudità (Bompiani). Dall’ominide Lucy, vissuta in Etiopia 3,2 milioni di anni fa, al primo nudista che inventò le invasioni di campo, passando per le pubblicità di Eva Herzigova e gli spettacoli di Dita von Teese, il racconto dell’evoluzione del costume si intreccia a quello dell’evoluzione della nostra specie. Finché abbiamo avuto addosso una folta pelliccia naturale, infatti, non abbiamo avuto bisogno di vestirci, e di conseguenza nemmeno di spogliarci. «L’evoluzione umana è stata anche una questione di peli persi e ghiandole sudoripare guadagnate. Non sarà elegante, ma è così. Se avessimo ancora la pelliccia e sudassimo meno, secondo alcuni studiosi, non avremmo potuto evolvere quel cervello di cui andiamo giustamente orgogliosi e che è grosso il triplo di quello della vecchissima Lucy». Un cervellone che dobbiamo avere subito utilizzato per fare una scoperta sensazionale: che eravamo, per l’appunto, nudi. E così abbiamo cominciato a vestirci, dando inizio alla storia della moda e del pudore, più o meno 170 mila anni fa.
Da allora in poi, però, le cose non hanno fatto che complicarsi. Nudo è naturale, osserva Meldolesi, ma anche sconveniente. Mostrarsi nudi significa esporre la propria umana fragilità, ma anche offendere e provocare. Sono tutti questi paradossi che rendono la nudità «una lente interessante per osservare la natura umana». E sono anche ciò che rende più interessante un libro su questa strana specie che siamo. «Scimmie nude che vanno in giro vestite».
Un altro motivo di interesse sta nella possibilità di rimettere in discussione alcuni luoghi comuni, come l’idea che lo sguardo “oggettificante” della pubblicità sia sempre uno sguardo maschile. «Gli esperimenti di tracciatura dello sguardo (eye tracking) rivelano che anche le donne squadrano le altre donne in quel modo». L’uomo cerca un partner sessuale, la donna soppesa le possibili rivali. Stesso discorso per il doppio standard in base al quale se lui è pieno di avventure è un dongiovanni, se lo è lei è una poco di buono. Anche qui i dati dimostrano che si tratta di un’opinione che è sempre stata più femminile che maschile, anche se la liberazione sessuale l’ha resa minoritaria. Più interessante ancora è notare come a seconda delle epoche e dei contesti una stessa parte del corpo possa essere considerata prima accettabile e poi scandalosa, come nel mezzo secolo che separa i capezzoli delle attrici di Broadway dal celebre «nipplegate», lo scandalo rappresentato dall’esibizione di un capezzolo di Janet Jackson nel bel mezzo di un Superbowl. Nel 2004.
Con un facile gioco di parole, potremmo dire che il libro mette a nudo le nostre contraddizioni, e anche molte delle nostre ipocrisie. All’ultimo festival di Cannes, il regista argentino Gaspar Noé dichiarò di avere voluto oltrepassare «il crinale ridicolo» che fa sì che un «film normale» non possa mostrare delle sequenze di sesso esplicito (nel film pare ci fosse pure un coito ripreso dall’interno, tipo colonscopia). E a noi tornò subito in mente Orson Welles, secondo il quale solo due cose non si possono portare sullo schermo: un uomo che prega e un atto sessuale. Non per ragioni morali, aggiungeva, ma estetiche. Forse perché la differenza tra lo stare inginocchiati e il pregare, come tra il fare sesso e il fare l’amore, sta in qualcosa che non è possibile mostrare credibilmente nemmeno al più grande degli attori. Ed è tuttavia la differenza essenziale. La stessa che passa, in qualsiasi epoca, tra l’essere nudi e il sentircisi.
(l’Unità, 7 novembre 2015)