“Non è una guerra. Evitiamo che lo diventi”
«Anzitutto eviterei di parlare di guerra globale, terza guerra mondiale o addirittura quarta, come fa qualcuno, contando pure la guerra fredda». Parte da questa premessa Silvio Pons, direttore dell’Istituto Gramsci e storico dell’età contemporanea, nel commentare la strage di Parigi e le sue possibili conseguenze.
Per quale ragione?
«Perché si tratta di una retorica che può servire forse a mobilitare le coscienze, ma certo non pone le basi per una visione lucida delle cose. Il punto è che dicendo così abbiamo già dato un argomento in più all’Isis, che tra tutti i soggetti in campo è quello che ha più interesse a dire che siamo già nella terza guerra mondiale».
Vuol dire che così favoriamo la sua capacità di arruolamento?
«La sua capacità di arruolamento e il suo protagonismo, certo. Il rischio che questa guerra venga interpretata come uno scontro di civiltà è molto alto. Insomma, a forza di parlare di terza guerra mondiale, rischiamo di finire in una profezia che si autoavvera».
Siamo sicuri che qualche rischio di andare in quella direzione non ci sia comunque?
«Certo che il rischio c’è. Ed è proprio per questo che dobbiamo partire da un’analisi che ci può portare anche all’uso della forza, ma per evitare un conflitto globale, non perché ci siamo già dentro. È questo determinismo che mi preoccupa».
Dunque, la sua analisi qual è?
«La mia analisi è che siamo davanti a un conflitto localizzato, regionale, ma che ha una potenzialità esplosiva su due fronti: il primo è quello di una guerra civile araba. E non c’è bisogno di spiegare perché un’espansione del conflitto in una regione in cui sono già presenti vari focolai, come in Yemen, e che si estendesse magari anche all’Arabia Saudita, sarebbe molto preoccupante».
E il secondo fronte?
«Il secondo fronte è uno scenario di mediorientalizzazione dell’Europa, di minaccia terroristica nella vita quotidiana che si basa su fonti endogene, sacche di militanza e di disperazione presenti nelle società europee, che hanno anche un carattere etnico e sociale». Si riferisce alle banlieue? «Anche, certo. Diciamo che più in generale la situazione dovrebbe spronare l’Europa a riesaminare le proprie politiche economiche e sociali. Tutti questi discorsi però non avrebbero senso se partissimo dal presupposto che siamo già immersi in una guerra globale. E invece dobbiamo ripetere che non lo è. Lo può diventare, certo, se lo scenario di una guerra civile araba e di un’escalation di attentati in occidente va avanti senza incontrare una reazione adeguata. Reazione che si deve fondare proprio sul presupposto che è ancora possibile fermare questa combinazione spaventosa sui due fronti. Partendo da una constatazione fondamentale».
Quale?
«L’Isis non è stato combattuto come avrebbe potuto esserlo. Finora c’è stata una sottovalutazione del problema. Che forse spiega anche perché ora rischiamo di cadere nell’eccesso opposto».
Lei è ha studiato in particolare la storia del comunismo e della guerra fredda. Non pensa che stiamo pagando anche qualche limite nel modo in cui siamo usciti da quella stagione?
«Sì. Il problema è che a partire dal collasso sovietico c’è stata una grande incertezza strategica da parte degli Stati Uniti, che hanno oscillato tra unilateralismo e ricerca di forme di consenso che hanno dato anche dei risultati, e penso soprattutto, oggi, all’apertura di Obama all’Iran. Ma certo dopo l’89 non si è cercato di costruire un ordine internazionale più forte. La cartina di tornasole di un ordine internazionale debole è stata proprio la combinazione delle due recenti crisi, in Ucraina e in Siria. Due crisi regionali con potenzialità globali che hanno creato un grave conflitto tra Russia e occidente. Un conflitto che non era inevitabile».
L’accuseranno di difendere la politica di aggressione di Putin.
«Ma io sono molto critico sulla politca di Putin, in Ucraina e non solo. Penso però che fosse possibile evitare quella spirale, prima. Il momento chiave è l’allargamento dell’Europa, cui corrisponde un allargamento della Nato, quando si pensa di poter lasciare fuori la Russia senza stabilire forme di partnership sufficientemente solide. Non voglio diminuire le gravissime responsabilità di Putin, oggi. Constato però che il pallino in mano negli anni 90 ce lo avevano Stati Uniti, Nato ed Europa. E che la lungimiranza con cui gli americani affrontarono la ricostruzione europea dopo la seconda guerra mondiale non si è vista dopo il collasso sovietico. Detto questo, è chiaro che oggi, nel disordine mondiale in cui viviamo, nessuno ha le chiavi per risolvere da solo tutti i problemi. Però c’è sempre qualcosa che si può fare, e l’apertura di Obama all’Iran, ad esempio, mi sembra un passo nella giusta direzione. E non da poco».
(l’Unità, 17 novembre 2015)