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Una Leopolda gramsciana

14/03/2017

C’era qualcosa di antico, anzi, di nuovo, in questo curioso Lingotto democratico, in questa vecchia Leopolda di partito, in questa tre giorni così strana, sempre a metà tra la Frattocchie renziana e la Woodstock gramsciana. Con Beppe Vacca a scandire tra gli applausi, la voce tonante e le braccia spalancate, quasi volesse lanciarsi a volo d’angelo sulla platea in delirio, che questi quattro anni di governo «hanno ormai risolto i problemi fondamentali di identità del nostro partito», un partito «finalmente nelle mani di una nuova generazione, verso la quale la vecchia, per accidia, ignavia o invidia non è stata generosa». Con Biagio de Giovanni a parlare di come superare la «prima grande crisi politica della globalizzazione», a interrogarsi su «come passiamo dal livello nazionale al livello sovranazionale», ma soprattutto a dire che «questa è l’assemblea in cui si costituisce un nuovo Partito democratico, non il Partito democratico meno quelli che se ne sono andati, ma un nuovo Partito democratico, che però sia capace di innestare di nuovo la politica nei grandi processi sociali e culturali».
E così, quando il ricandidato-segretario si è ripresentato sul palco per le conclusioni, in giacca e cravatta, e ha cominciato citando le riflessioni di Vacca e de Giovanni, per un attimo ci siamo trovati davanti un’inedita sintesi psichedelico-culturale: la visione di Matteo Renzi che conclude un convegno dell’Istituto Gramsci. Un interminabile istante che si sarebbe ripetuto infinite volte: nella sterminata platea del Lingotto, che affratellava vecchi militanti in doppiopetto grigio-togliattiano e giovani startupper in giacca e zainetto; nei gruppi di lavoro strapieni fino a mezzanotte, in cui fior di social-reaganiani ascoltavano senza un fremito il vicino di posto dar loro ragione con la più classica delle formule: «Sono molto d’accordo con il compagno che mi ha preceduto»; nella coda davanti al bar o al guardaroba, che non finivano mai, dove era già impossibile distinguere i franceschiniani post-comunisti dai franceschiniani post-democristiani, se non forse da un’allegria appena meno espansiva dei secondi. Ed ecco affacciarsi, in ognuno di quei momenti, appena intuito, il dubbio più impensato: che l’amalgama, alfine, sia riuscito.
Possibile? Certo è ancora presto per trarre conclusioni. Ma l’impressione è che tra tanti semplici elettori venuti fin lì a loro spese prima di tutto per sostenere il leader, tanti intellettuali venuti a dare il loro personale e libero contributo (dal sociologo cattolico Mauro Magatti allo psicanalista-filosofo Massimo Recalcati) e tanti dirigenti e parlamentari venuti lì perché dove altro dovevano andare, alla fin fine, corresse un filo comune. Un filo fatto non soltanto di idee, diverse ma compatibili, distinte e forse già inseparabili. Ma anche di passione. D’altra parte, come diceva Antonio Gramsci, e avrebbe potuto dire anche Steve Jobs, «non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione».

(L’Unità, 14 marzo 2017)

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