Gli ex dc contro la demoniaca tentazione postcomunista
Roma. Il convegno organizzato per domani dai popolari del Pd si terrà all’università gregoriana, a porte chiuse, e sarà incentrato sull’analisi del voto. A quasi due mesi dalle elezioni, potrebbe apparire un’iniziativa scarsamente tempestiva, ma dopo tutte le polemiche suscitate dall’intervento di Massimo D’Alema alla Summer School filosofica di ItalianiEuropei – quello sulla “demoniaca tentazione del potere” da cui la chiesa dovrebbe guardarsi – si capisce che l’idea di un convegno incentrato sul “voto cattolico” non è poi così peregrina. L’iniziativa è riservata a non più di una ventina di persone, a partire dai vertici del partito (ex diessini inclusi: dal segretario Walter Veltroni a Massimo D’Alema, da Pierluigi Bersani a Piero Fassino) ed è stata pensata dai popolari riuniti nell’associazione Quarta Fase, verosimilmente, anche in risposta all’analoga iniziativa tenuta il 14 maggio da ItalianiEuropei. A illustrare l’analisi dei flussi, per esempio, ci sarà lo stesso Paolo Natale, che già alla fondazione dalemiana aveva preparato il terreno alle migliori battute della giornata. La prima, di Beppe Fioroni: “Insomma, ci state dicendo che ci votano solo quelli che non lavorano, che sono vecchi e adesso pure atei”. La seconda, dello stesso D’Alema: “In pratica, per capire qualcosa dell’Italia, dovremmo smettere di frequentare tutti quelli che frequentiamo”. Intuizione che probabilmente Fioroni (che sta a Quarta Fase come D’Alema sta a ItalianiEuropei) intende raccogliere e rilanciare, almeno per quanto riguarda i rapporti con il mondo cattolico, la cui sensibilità sarebbe stata “ferita” – ha spiegato nei giorni scorsi l’ex ministro dell’Istruzione – da quelle incaute parole sulla chiesa e sulla “tentazione del potere”. Una polemica da cui era emersa plasticamente – dopo le critiche di Fioroni, Franceschini e Marini, ma anche del veltroniano Giorgio Tonini – l’attuale configurazione dei rapporti interni al Pd: D’Alema da un lato, popolari e veltroniani dall’altro.
Al convegno di Quarta Fase sono stati invitati, non per nulla, molti esponenti di quel mondo cattolico “impegnato nella società” che vanno dal segretario della Cisl al presidente delle Acli, dalla comunità di Sant’Egidio alla Confcooperative, dal volontariato alla Coldiretti. Quella di domani, però, sarà solo la prima di una lunga serie di iniziative che i popolari hanno in preparazione. A partire dalla “seconda Assisi” annunciata da Fioroni per ottobre, onde evitare sovrapposizioni – a settembre – con la Festa democratica (fu “dell’Unità”) e con la Summer School del Pd cui sta lavorando Tonini, con Michele Salvati e Salvatore Vassallo, e che qualcuno ha impropriamente definito la “Frattocchie veltroniana”. Ma prima della pausa estiva (giugno-luglio), i popolari hanno in mente anche un’altra iniziativa di carattere politico-culturale, incentrata sul tema della (presunta) scomparsa, afasia, debolezza dei cattolici democratici, di cui discutere con intellettuali e giornalisti. Un fiorire di iniziative che germogliano, forse non per caso, tutte a ridosso di quella conferenza programmatica prevista per il prossimo autunno, fissata all’indomani delle elezioni politiche (e del ballottaggio romano) nel corso di un movimentato “caminetto”. L’ormai celebre riunione in cui Veltroni si presentò con la proposta di un nuovo congresso, cioè di nuove primarie, subito derubricato a “congresso tematico”, infine a “conferenza programmatica”. Su questa linea – no a nuove primarie, perché segretario e gruppo dirigente non sono in discussione – si è saldato l’asse veltroniani-popolari-fassiniani. Lo stesso che aveva già fermato la corsa di Pierluigi Bersani alla carica di capogruppo alla Camera (sia alla Camera sia al Senato, infatti, sono stati infatti confermati gli uscenti). Un asse uscito fortissimo dalla composizione di tutti i nuovi organismi dirigenti, con non piccolo sacrificio dei veltroniani, a vantaggio di tutte le correnti della ex Margherita (popolari per primi). Di qui la svolta dal partito leggero – con i “certificati di socio fondatore” al posto delle “tessere”, dunque con gli “aderenti” al posto degli “iscritti” – al partito “radicato nel territorio”, con tanto di “tesseramento”, che partirà a luglio. E che richiederà, sostengono alcuni, una modifica statutaria. Dunque una discussione in assemblea nazionale (ex costituente) per ridefinire peso, diritti e doveri dell’iscritto al Pd. La riunione è prevista per questo mese e c’è chi teme che per l’occasione tornino a fronteggiarsi fautori del partito leggero e sostenitori del radicamento, rimettendo in discussione il fragile e invero assai bizantino equilibrio trovato sin qui nello statuto. Nella stessa riunione, poi, si dovrebbe eleggere il nuovo presidente del partito, ruolo rimasto vacante dopo le dimissioni di Romano Prodi. Considerati gli attuali equilibri, e la ferrea volontà dei popolari di impedire che il Pd si trasformi in una “Cosa 3” caratterizzata dall’eterna rivalità Veltroni-D’Alema, sembra verosimile che l’assemblea elegga Franco Marini, e che la linea del partito radicato, solido e tesserato ne esca pienamente confermata (sia pure con qualche concessione retorica a modelli diversi, forse più accattivanti, ma assai invisi ai solidi popolari). (il Foglio, 4 giugno 2008)
un pò una palla questa nota politica. è la prima volta che non riesco a leggere per intero un tuo post.
La cultura cattolica democratica c’è… mi auguro che si faccia anche vedere.
editoriale di “Aggiornamenti Sociali”, settembre/ottobre 2008
http://www.aggiornamentisociali.it/
Bartolomeo Sorge S.I.
Direttore di «Aggiornamenti Sociali»
Con le elezioni del 13-14 aprile scorso si è chiuso un ciclo della politica italiana. Di fronte alle incognite del nuovo quadro politico, una responsabilità particolare grava sugli eredi del cattolicesimo democratico per il ruolo da essi svolto finora e del quale il Paese ha ancora bisogno. Il guaio è che i «cattolici democratici» (come tutta la politica italiana) sono in crisi. La «diaspora», dopo la fine della DC, li ha dispersi – a destra e a sinistra – in soggetti politici nuovi, privi di solida cultura politica e di un programma di largo respiro. Perciò molti oggi sono delusi: alcuni pensano di impegnarsi nel sociale, altri rimangono in politica, ma senza entusiasmo. Concretamente, tanti cattolici che avevano creduto nel disegno ulivista di Prodi non nascondono ora lo scontento per un Partito Democratico privo di una chiara identità e che stenta a impostare una seria opposizione politica. Parimenti altri cattolici, che avevano creduto in Berlusconi o lo hanno votato, oggi sono perplessi di fronte a scelte che si discostano chiaramente dallo spirito cristiano e da quello della Costituzione.
Pertanto, sono molti i cattolici delusi, che però non possono in alcun modo rassegnarsi. Si tratta di reagire alla crisi di fiducia e scorgere nella stessa delusione il momento opportuno, l’«occasione propizia» (kairos) per tentare nuove strade. Il fenomeno dei «cattolici delusi, non rassegnati» merita attenzione. Vedremo, perciò: 1) le ragioni della «delusione»; 2) in che senso l’attuale crisi di fiducia costituisce un’«occasione propizia»; 3) quali «nuove strade» percorrere per vincere la rassegnazione.
1. Le ragioni della «delusione»
Una recente indagine effettuata dalla IPSOS, dal titolo «I cattolici e le elezioni politiche 2008», mostra come i cattolici praticanti abbiano orientato il proprio voto: il 41,6% per il Popolo della Libertà (PDL), il 28,2% per il Partito Democratico (PD), il 10,2% per l’Unione di Centro (UDC), il 9,2% per la Lega Nord e il Movimento per l’Autonomia (LN-MPA) e il 4% per l’Italia dei Valori (IDV). Interrogati su quale forza politica oggi rappresenti meglio in Italia i valori cristiani, i «cattolici impegnati» hanno indicato nell’ordine: PDL (26%), UDC (25%), Nuova Democrazia Cristiana (14%), IDV (7%) e, in coda, PD (3%) e LN (2%).
Le scelte di voto dei cattolici sono state pesantemente condizionate dai temi economici (per il 56%), in misura minore da quello della sicurezza (17,8%), mentre i temi etici sono stati marginali (3,4%) (cfr «I cattolici? In centro a destra», in Famiglia Cristiana, 27 luglio 2008, 32-35).
Gli analisti e i commentatori politici sono concordi nel rilevare che esistono diverse spiegazioni per motivare questo collocamento a destra. Al di là del fatto che esso rispecchia la tendenza storica – salvo alcune isolate eccezioni – dell’elettorato italiano, ad aprile ha certo pesato negativamente sui cattolici la scelta del PD di allearsi con i radicali; più in generale, il voto dei cattolici è stato mosso più da reazioni emotive che da motivazioni ideali. Basti pensare alla «sindrome di insicurezza» che alcuni attribuiscono soprattutto alla paura dei clandestini, ma che, in realtà, nasce anche da molte altre paure che nulla hanno a che vedere con l’immigrazione: il 38% degli italiani vive con la paura di diventare povero; il 64% è convinto che l’avvenire dei figli sarà peggiore di quello dei genitori; il 40% è angosciato dal terrorismo; molto diffuse, poi, sono le «paure» generate dal degrado ambientale: il 58% degli italiani non è sicuro del cibo che mangia, dell’acqua che beve, dell’aria che respira (cfr «Criminalità e paura del futuro in cima ai pensieri degli italiani», in la Repubblica, 27 luglio 2008).
In un simile clima di tensione emotiva, la destra ha avuto buon gioco nel presentarsi come garante dell’ordine pubblico, promettendo ai cittadini «pugno di ferro» e «tolleranza zero». Paradossalmente però l’insistenza sulla «insicurezza», se è stata determinante per vincere le elezioni, ora si ritorce negativamente sull’azione del Governo.
Ecco la prima ragione di delusione. L’esecutivo, infatti, per soddisfare l’emotività dei propri elettori, si è visto obbligato a dare la precedenza a decisioni di maggiore impatto mediatico, ma che non erano obiettivamente le più importanti come mandare i soldati nelle strade e compiere blitz notturni nei campi nomadi. Il tutto per «rassicurare» i propri elettori, puntando molto più al clamore della notizia che non alla sostanza degli interventi effettuati. Contemporaneamente ha dato la precedenza ad altre scelte, niente affatto urgenti e prioritarie, per salvaguardare gli interessi personali del premier, al fine – è stato detto – di «consentirgli di governare serenamente»: l’immunità per le più alte cariche dello Stato, i limiti nell’uso delle intercettazioni telefoniche, il confronto-scontro con la magistratura.
In realtà, non sono queste le urgenze del Paese. I veri problemi sono altri (e tanti): sono i salari e gli stipendi fermi da anni mentre il costo della vita aumenta e la produzione ristagna; sono la malasanità e la mancanza di infrastrutture per lo sviluppo, di politiche energetiche e ambientali adeguate; sono i lavoratori «precari» e i soggetti deboli della società lasciati a se stessi; sono le varie «mafie» che, con le loro connivenze, controllano ampi spazi di territorio; sono le riforme istituzionali, sulle quali ancora non c’è accordo. Quando si affronteranno questi nodi? Soprattutto, come si affronteranno?
Infatti, desta preoccupazione non tanto il richiamo del premier al «primato del fare», poiché un Governo ha il dovere di amministrare, quanto l’incerto orizzonte valoriale in cui l’operato si colloca e che lo stesso leader ha definito «anarchia dei valori» (sinonimo di etica individualistica). L’attivismo del Governo si ispira, cioè, a una precisa etica, liberale e utilitarista, che finisce con il privilegiare l’interesse di pochi (leggi ad personam, norme repressive, salvataggio di Alitalia, ecc.) sul bene comune e sulla solidarietà; il primato dell’«effetto annuncio» sulla sostanza.
Da un lato, si offre agli anziani poveri la «carta sociale» per l’acquisto di beni essenziali, dall’altro si cerca di togliere (anche se, in extremis, l’errore è stato corretto) la misera pensione sociale, unica fonte della loro sussistenza; da un lato, si riducono i fondi ai giornali e alle radio che operano senza scopo di lucro, decretando la chiusura di molti di essi a scapito del pluralismo informativo, dall’altro si continuano a erogare ingenti «contributi indiretti» (305 milioni di euro) alle testate di proprietà dei grandi gruppi; da un lato si toglie l’ICI sulla prima casa e dall’altro si obbligano i Comuni a trovare forme alternative di tassazione (diretta o indiretta) per rimediare alla mancanza di fondi.
Certamente saranno state compiute anche scelte buone ed efficaci; tuttavia, se continuerà a concepire la politica come soluzione di problemi di pochi, trascurando la vera promozione di ciascuno e di tutti, il Governo rischia di avere i piedi d’argilla; e il numero degli scontenti non potrà che crescere.
La seconda ragione di delusione per i cattolici viene dallo sbandamento che attraversa l’opposizione. La manifestazione pubblica dell’8 luglio 2008 a Roma, promossa tra gli altri da Di Pietro e dai «girotondini», è stata non solo un brutto esempio di degrado culturale, prima che politico, viste le offese rivolte al Capo dello Stato e al Papa, ma anche un’occasione mancata in cui esprimere civilmente il proprio disappunto verso i valori in gioco nelle prime leggi del Governo. Il PD, se da un lato ben ha fatto a non aderire alla manifestazione, dall’altro non riesce a emergere come forza politica alternativa e incisiva. Ancora troppo litigioso al suo interno, intrappolato dai personalismi degli amministratori locali, senza una leadership reale, rischia di perdere l’occasione favorevole per esercitare un’opposizione veramente tale sul piano dei valori e dei contenuti.
2. Un «momento opportuno»
In questo contesto di vuoto progettuale e culturale, i cattolici possono cogliere il momento opportuno per una iniziativa efficace di rinnovamento. L’occasione è offerta dal nuovo quadro politico, nel quale è finita per sempre la «questione cattolica» come l’abbiamo conosciuta in Italia per un cinquantennio. È infatti mutato il rapporto dei vescovi, ad intra, con i fedeli laici impegnati in politica e, ad extra, con le istituzioni dello Stato. La Gerarchia, anche in Italia, svolge con impegno il suo compito di formare le coscienze e di riaffermare il primato dei valori morali e sociali alla luce del Vangelo e della dottrina sociale della Chiesa. Allo stesso tempo – come ha spiegato il presidente della CEI, card. A. Bagnasco, al Meeting di Rimini (24 agosto 2008) -, pur non essendo un soggetto politico, la Chiesa si interessa alla res publica ed è «capace di partecipare alla vita politica nel segno della democrazia e della verità». Da alcuni anni, la CEI lo fa in prima persona e senza deleghe, come è avvenuto in occasione del dibattito sulla procreazione assistita e sui «DICO».
I cattolici italiani, da parte loro, militando ormai in tutti i partiti, a destra e a sinistra, sono investiti di una responsabilità nuova. A essi si richiede che siano cittadini e cristiani «adulti». «Il compito immediato di agire in ambito politico per costruire un giusto ordine nella società – come aveva ricordato Benedetto XVI al Convegno ecclesiale nazionale di Verona (19 ottobre 2006) – non è […] della Chiesa come tale, ma dei fedeli laici, che operano sotto propria responsabilità: si tratta di un compito della più grande importanza, al quale i cristiani laici italiani sono chiamati a dedicarsi con generosità e con coraggio, illuminati dalla fede e dal magistero della Chiesa e animati dalla carità di Cristo».
La situazione attuale costituisce, dunque, un «momento propizio» per quel salto verso la maturità del laicato italiano che ancora non si è pienamente realizzato a oltre 40 anni dal Concilio. Le parole del Papa a Verona mostrano sempre di più il loro carattere profetico: egli spronava i fedeli laici italiani a un atteggiamento creativo e coraggioso; non «un rinunciatario ripiegamento su [sé] stessi: occorre invece mantenere vivo e se è possibile incrementare il […] dinamismo, occorre aprirsi con fiducia a nuovi rapporti, non trascurare alcuna delle energie che possono contribuire alla crescita culturale e morale dell’Italia». Condizione sine qua non per riuscire in questa impresa – ribadiva il Papa – è riprendere fiducia nella propria vocazione e missione cristiana, grazie all’incontro personale con il Risorto «che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».
In questa circostanza, grazie alla quale la presente crisi di fiducia dei cattolici può trasformarsi in «un momento favorevole» di rinnovamento, emerge la domanda che essi non possono non porsi (insieme a tanti altri cittadini): possibile che non vi sia nessun’altra strada per fare una «buona politica», oltre a quelle finora sperimentate e risultate inadeguate? Può essere d’aiuto ricordare un inciso della Gaudium et spes (n. 76) relativo all’impegno politico dei cattolici. Dopo aver ribadito la «chiara distinzione tra le azioni che i fedeli compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori», il documento conciliare specifica come le attività temporali che i fedeli laici compiono «in proprio nome» possono essere svolte o «individualmente» (da soli) o «in gruppo» (insieme ad altri).
Bisogna, quindi, da un lato incoraggiare l’impegno dei singoli cattolici, debitamente formati, all’interno dei diversi soggetti politici; ovviamente sarà cruciale la loro capacità di discernimento, perché dinanzi a ogni scelta sappiano comportarsi sempre da cristiani responsabili e coerenti. D’altro lato, è altrettanto auspicabile che altri cattolici scelgano invece di impegnarsi «in gruppo» – ben lontani dall’innalzare steccati -, unendosi cioè tra di loro e con quanti condividono i valori di ispirazione cristiana e di democrazia laica, ritenendo di poterli affermare più efficacemente, evitando il rischio, purtroppo molto concreto, di essere zittiti o di divenire insignificanti all’interno di soggetti politici dove un vero confronto è spesso impossibile o infruttuoso.
L’importante è che i cattolici non si rassegnino a svolgere soltanto un ruolo pre-politico, rifugiati in ambiti di impegno sociale e culturale, ma accettino l’impegno politico come servizio a vantaggio esclusivo del bene comune.
3. «Nuove strade» per vincere la rassegnazione
Il problema non nasce oggi. Se lo ponevano già, molti anni fa, i vescovi italiani in un documento che conserva ancora tutta la sua importanza: La Chiesa italiana e le prospettive del Paese (1981). Di fronte ai grandi cambiamenti che cominciavano a profilarsi all’orizzonte, il Consiglio Permanente della CEI si interrogava sul possibile superamento della DC: «Oggi più acutamente si avvertono gli inevitabili limiti e un certo logoramento di tale esperienza [l’unità dei cattolici nella DC] e non manca chi si appella al pluralismo per orientare su strade diverse l’impegno dei cristiani. Noi sappiamo bene che non necessariamente dall’unica fede i cristiani debbono derivare identici programmi e operare identiche scelte politiche: la loro presenza nelle istituzioni potrebbe legittimamente esprimersi in forme pluralistiche» (nn. 36 s.). Queste non hanno una forma predefinita, possono assumere i connotati dei «laboratori politici», oppure di gruppi di lavoro e di confronto sui valori e sulle scelte concrete per meglio attuarli.
Ciò che più colpisce, a molti anni di distanza, è l’ipotesi che i vescovi facevano di fronte all’indebolimento della DC. Non invitavano i cattolici italiani a rinnovare la loro unità politica; ma, esclusa decisamente ogni forma di assenteismo, avanzavano un’ipotesi – ancora tutta da esplorare – per molti aspetti simile all’intuizione sturziana di un’«area popolare democratica»: aperta a tutti i «liberi e forti», credenti e non credenti, che condividano valori e ideali; da costruire dal basso, a partire dal territorio, coinvolgendo i mondi vitali della società. «C’è innanzi tutto da assicurare presenza – afferma il documento -. L’assenteismo, il rifugio nel privato, la delega in bianco non sono leciti a nessuno, ma per i cristiani sono peccato di omissione. Si parte dalle realtà locali, dal territorio. E si è partecipi delle sorti della vita e dei problemi del Comune, delle circoscrizioni e del quartiere: la scuola, i servizi sanitari, l’assistenza, l’amministrazione civica, la cultura locale. Ci si apre poi alla struttura regionale, alla quale oggi sono riconosciute molte competenze di legislazione e di programmazione. Così la presenza si estenderà anche ai livelli nazionale, europeo e mondiale, e potrà avere efficacia. È sbagliato, infatti, contare solo sui tentativi di rifondazione o di riforma che vengono dai vertici della cultura ufficiale e della politica» (n. 33).
No, dunque, a una nuova DC; no a una presenza puramente «profetica», solo culturale o pre-politica. I cattolici dovranno impegnarsi per una nuova «cittadinanza attiva» – termine chiave dell’ultima Settimana Sociale -, attraverso un impegno la cui ricaduta sia politica. Perciò, non si dovrà determinare dall’alto il cammino, né si dovranno definire a tavolino i nuovi organigrammi: è stato questo l’errore commesso dai tentativi più recenti di dare vita a soggetti politici «nuovi», come ad esempio la «Rosa Bianca» alle ultime elezioni. Essi sono nati vecchi, perché realizzati secondo le vecchie logiche partitocratiche. Occorre muovere dal basso, dalle attese di chi aspira a una politica fondata su ideali forti, ma vicina ai problemi quotidiani della gente e attenta a quanto di nuovo nasce e fermenta nel vissuto delle città e del territorio. La sfida per i «cattolici delusi ma non rassegnati» sta proprio qui: coinvolgere le risorse civiche esistenti sul territorio per affrontare insieme le gravi sfide che interpellano il Paese a livello sociale, istituzionale, politico ed economico, mantenendo un saldo riferimento ai valori della Costituzione, della democrazia laica e dell’insegnamento sociale cristiano.
In che modo tutto questo possa prendere forma è ancora da esplorare. Può giovare citare un esempio, costituito da due gruppi (Italia popolare e Area popolare democratica) che, in un Convegno tenutosi a Torino il 5 luglio 2008, hanno deciso di mettersi insieme. Nel documento finale si sottolinea che l’iniziativa è aperta a «quanti, in vario modo, sono riconoscibili per eguale volontà di servizio e per tensione sociale unitaria ad assumere questo spirito di ricerca delle affinità civiche ed etiche e a mobilitarsi sul territorio, per dar vita a una realtà più ampia dove esse stesse e realtà civiche e popolari che condividono la stessa analisi, potranno confluire ricostituendo una triplice autonomia di analisi, valutazione e azione. Per indicare provvisoriamente questa esperienza, si è ricorsi all’espressione INCIPIT, un acrostico che riproduce la parola latina che sta per “inizio” e significa: Intesa Civica Popolare Italiana. L’aspetto civico richiama la matrice autonomista e municipalista del popolarismo; l’italianità sottolinea l’unità della nazione e il vero senso del federalismo, che dal molteplice e dalla ricca pluralità forma il mosaico unitario. INCIPIT […] è anche simbolo della consapevolezza che in ogni momento si comincia sempre il cammino mai compiuto e soddisfacente, eppure aperto all’avvenire».
Si tratta di un esempio che qualcosa di nuovo è ancora possibile, ma soprattutto che è possibile rinnovare l’impegno e il dialogo tra quei cattolici che militano individualmente nei partiti e quei cattolici che stanno cercando altre forme di impegno politico, affinché non venga meno alla società il contributo specifico di cui sono portatori. Sperando, come il Papa ha chiesto a Cagliari il 7 settembre 2008, che cresca «una nuova generazione di laici cristiani, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile».