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Qualche dubbio sulla docu-fiction politico-giudiziaria che ha per protagonista Ottaviano Del Turco

19/07/2008

“Il segreto istruttorio non consente di verificare se gli odori che provengono dalle carte di Pescara siano tanto netti da poter assegnare ai protagonisti di questo ennesimo scandalo il marchio della colpevolezza o il ‘santino’ degli ingiustamente inquisiti – scriveva sulla Stampa, il 15 luglio, Francesco La Licata – eppure sono proprio i dettagli, le sfumature, gli odori appunto, a consegnare quantomeno il quadro di una vicenda tutta radicata nello stesso territorio”. Non si poteva descrivere meglio il succo di tante ricostruzioni uscite in questi giorni sulla vicenda che ha portato all’arresto di Ottaviano Del Turco e di buona parte della giunta abruzzese: odori. Quanto al “quadro”, bastava il titolo dell’articolo: “Capretto, patate e attorno al tavolo la Grande spartizione”. Di segreti istruttori e potenziali “santini” da innocente, nessuna traccia. E così su tutti i giornali. La “cena del capretto” in cui si sarebbero spartiti oltre dodici milioni di tangenti è stata variamente sceneggiata, seguita dai “sacchetti di mele”, dalle rievocazioni del pouf di Poggiolini e da tutti i classici di un genere giornalistico-letterario ormai consolidato: la docu-fiction giudiziaria. Un profluvio di “prove schiaccianti” mai chiaramente esibite, sostituite da vaghe allusioni a documenti che “inchioderebbero” l’accusato, in una cornice romanzesca a metà tra il Satyricon e il Padrino. Tanto è bastato a fare rapidamente terra bruciata attorno a Del Turco.
Eppure, tra gli stralci dell’ordinanza del gip riportati il 16 luglio da Carlo Bonini e Giuseppe Caporale su Repubblica, si trova il seguente passo: “Le indagini non hanno sin qui evidenziato situazioni atte a riscontrare incassi diretti di denaro contante in conseguenza delle dazioni effettuate da Angelini (Vincenzo Angelini, il principale testimone dell’accusa, ndr)”. Dunque è proprio il gip a dirlo: incassi diretti non sono stati riscontrati. “Ma tale circostanza – prosegue l’ordinanza – non è assolutamente idonea a inficiare l’ipotesi accusatoria. Apparendo evidente come la prova della destinazione delle somme di persone operanti nel settore istituzionale non è agevole, potendo esse contare su rapporti personali che certamente consentono la gestione del denaro anche per interposta persona”. Che è un po’ come dire che per arrestare una persona con l’accusa di omicidio non occorre “riscontrare” l’esistenza di un cadavere. Purché si tratti, va da sé, di persone “operanti nel settore istituzionale”. Viste le polemiche sui seggi in Senato non attribuiti alla Rosa nel pugno, campeggiate per mesi sui giornali, forse però non sarebbe stato così disagevole riscontrare che Del Turco otto senatori socialisti proprio non se li poteva comprare, dato che non esistevano. Ma simili incongruenze perdono importanza dinanzi alle parole del gip e alla sua concezione di onere della prova applicata a persone “operanti nel settore istituzionale”.
E pensare che la notizia dell’arresto di Del Turco è arrivata giusto il 14 luglio, mentre buona parte dei massimi esponenti di centrosinistra e centrodestra si trovava a discutere di “Una moderna democrazia europea”, come recitava il titolo del convegno sulle riforme istituzionali promosso da ItalianiEuropei e da varie altre fondazioni. Ed è un peccato che tra tutte le (ingenti) forze politiche e intellettuali chiamate ad abbattere gli idoli della cultura istituzionale nata dalla “rivoluzione maggioritaria” del ’92-93 (i falsi “miti” della Seconda Repubblica, come li ha chiamati nel suo intervento Roberto Gualtieri), nessuno abbia colto l’occasione per riflettere anche sulla temperie politico-giudiziaria da cui quella cultura istituzionale è nata. Un’occasione che Stefano Ceccanti, nel suo intervento “in dissenso”, aveva offerto ai promotori su un piatto d’argento, dichiarando che “un convegno fatto il 14 luglio non si presta a una mediazione tra i giacobini e la Vandea”. Giudicando la proposta del convegno “un ritorno al pre-1993”, infatti, Ceccanti si auto-assegnava esplicitamente “la parte del giacobino”.
Ora che il “bubbone” della corruzione è scoppiato, scriveva sull’Unità Antonio Padellaro all’indomani degli arresti, bisognerà “parlarne seriamente, magari sottraendo un po’ di spazio alle dispute sul sistema tedesco o spagnolo”. Ma forse è vero anche il contrario. E cioè che senza affrontare entrambe le questioni, difficilmente il Pd potrà conciliare la riproposizione di una cultura dei contrappesi e delle garanzie istituzionali con la deriva antipolitica che per tante vie ha attraversato le sue file in questi quindici anni, e che dopo ogni 14 luglio trova i suoi giacobini pronti a celebrarla. (il Foglio, 19 luglio 2008)

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