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La (di)partita dei sindaci

12/12/2008

Erano il futuro. La nuova classe dirigente pronta a guidare il Partito democratico. La promessa di un rinnovamento possibile e da tutti pubblicamente auspicato. Fino a ieri. Poi, all’improvviso, il clima è cambiato. E la slavina della questione morale sembra avere travolto proprio loro: i sindaci, i presidenti di regione, gli amministratori locali da cui avrebbe dovuto venire il riscatto. Il primo a dirlo pubblicamente e senza giri di parole è stato Giorgio Tonini, in un’intervista al Messaggero dedicata proprio alla questione morale. “E’ da tempo che ci ragioniamo ma adesso sta emergendo in maniera netta: sta arrivando a esaurimento, forse si è già consumata, la stagione degli amministratori inaugurata negli anni Novanta, il ‘partito dei sindaci’, quelli che dopo la fine ingloriosa della Prima Repubblica si erano affermati su tre parole d’ordine: moralità, competenza, innovazione”.
Definito dai giornali ora “braccio destro”, ora “testa d’uovo”, ora “consigliere principe” di Walter Veltroni, con le sue parole il senatore Tonini non poteva non suscitare attenzione. Non per nulla fu lui il primo a parlare di “staccare la spina al governo Prodi” e di “tornare al voto”, aggiungendo che a quel voto il Pd avrebbe potuto anche “andare da solo” (e lo scrisse nell’ottobre del 2007, quando erano ancora in piedi sia il governo Prodi sia la coalizione di centrosinistra). Non stupisce pertanto che le sue parole siano state prese molto sul serio. Ma se Tonini parla di una competenza che ha via via “lasciato il posto al professionismo con contorno di cinismo e arroganza”, mentre “in luogo dell’innovazione è rimasta la gestione del potere per il potere fine a se stesso”, Europa gli risponde con un editoriale dal titolo significativo: “Viva il partito dei sindaci”. E dichiara di non capire come “dalle parti del centrosinistra si possa partecipare col sorriso al funerale di quella che fu la propria stagione migliore: puro autolesionismo”. Fatto sta che dopo l’antico mito della diversità, quello più recente delle primarie e quello recentissimo del “partito del nord”, la questione morale sembra avere travolto anche questa certezza.
“Il paradosso – si è sfogato Beppe Fioroni – è che una settimana fa, quando si parlava di partito del nord, tutti puntavano il dito contro l’autoritarismo del vertice del Pd. Ora di colpo l’accusa è capovolta: dicono che Roma non è capace di imporsi a Napoli e Firenze”. Ma in quella stessa occasione – la riunione con i segretari regionali – Veltroni lo aveva detto chiaramente, forse anche con amarezza: “Sindaci e governatori sono stati eletti dal popolo. Un partito non può invadere campi non suoi”. In compenso, due giorni fa, il partito ha deciso di sospendere le primarie di Firenze, per sostituirle con primarie di coalizione, nonostante la campagna elettorale dei quattro contendenti fosse già cominciata. Una scelta che fino a poche settimane fa, come osservava Fioroni, non sarebbe stata neanche immaginabile. Tanto meno da parte di Veltroni, eletto dalle primarie. Per non parlare della sconfessione di quel “partito dei sindaci” di cui proprio lui è stato a lungo il campione, lui che proprio da sindaco di Roma si presentò alle primarie del 14 ottobre 2007 come l’unico candidato possibile per risollevare le sorti della sinistra.
Ma è evidente che il generale ripensamento di cui parlava Tonini non tocca solo i democratici. Basta leggere i giornali per vedere come d’improvviso tutti i più celebrati campioni di quella lunga stagione cominciata nel ’93, con l’elezione diretta dei sindaci, siano ora finiti nella polvere. “Era eccessiva la mia popolarità quando le cose sembravano andare per il meglio, è eccessiva la reazione opposta di questi mesi”, ha detto Antonio Bassolino, che nel 1993 conquistava il comune di Napoli, sconfiggendo Alessandra Mussolini e dando inizio a un lunghissimo periodo di egemonia sulla città prima e sulla regione poi, quale la sinistra non aveva mai goduto. Tutti i giornali parlarono di “Rinascimento napoletano” e a lungo Bassolino fu considerato tra i più promettenti leader nazionali. Una strada che però si trovò sbarrata da molti, a cominciare da Massimo D’Alema, tra i primi a parlare di un partito dei “cacicchi”. Alla fine, da capo del governo, gli offrì il ministero del Lavoro. Bassolino accettò, ma durò poco. E tornandosene a Napoli confidò agli amici la sua amarezza per essere caduto in trappola, per essersi fatto ingabbiare. I segretari cambiarono – da D’Alema a Veltroni, da Veltroni a Piero Fassino, quindi di nuovo a Veltroni – la storia no: una volta Bassolino abbandonava clamorosamente il congresso perché lo volevano far parlare per ultimo, o non lo volevano far parlare affatto, un’altra protestava perché non aveva nessuna intenzione di ricandidarsi; ieri perché in campagna elettorale, al comizio di Napoli, Veltroni gli ha impedito persino l’accesso al palco, oggi infine perché non vuole dimettersi. Lui che non voleva nemmeno ricandidarsi, e da almeno due ricandidature fa, trattato ora come un altro caso Villari. “Ma ho scelto di rimanere qui – ha detto qualche giorno fa al Corriere della Sera – per dovere, e perché mi è stato chiesto. Anche da quelli che adesso mi sparano addosso”.
Ma non era certo il solo, l’allora sindaco di Napoli, in quei lontani anni Novanta, a cercare di capitalizzare su scala nazionale l’enorme credito accumulato con la grande vittoria del ’93, l’inizio della Seconda Repubblica, il primo caso di elezione diretta e a sistema maggioritario in Italia. Quella rivoluzione che fece credere ad Achille Occhetto – e a tanti altri – che alle successive elezioni politiche sarebbe toccato alla sinistra postcomunista, per la prima volta, andare al governo. L’occasione in cui l’imprenditore Silvio Berlusconi fece la sua prima uscita politica, dichiarando che a Roma avrebbe votato per Gianfranco Fini, segretario del Msi, facendo inorridire buona parte della stampa, che subito lo definì “il Cavaliere nero”.
Francesco Rutelli, il vincitore di quelle elezioni a Roma, già cinque anni dopo decise di tentare il salto: fare un partito, con il sindaco di Venezia Massimo Cacciari, con il sindaco di Catania Enzo Bianco e con il presidente di Legambiente Ermete Realacci, “Centocittà”. Era il novembre del 1998, D’Alema era appena succeduto a Romano Prodi, e il suo ministro per le Riforme, Giuliano Amato, commentava subito sarcastico l’approccio “puramente domestico” dei partiti del centrosinistra. “Ma così, ciascun cuoco con la sua padella, finiremo per avere il partito ‘Cento padelle’”. Centocittà confluirà poi nella Margherita, Rutelli correrà nel 2001 da candidato premier (soffiando il posto proprio ad Amato, nel frattempo succeduto a D’Alema), quindi, dopo la sconfitta, resterà leader della Margherita fino allo scioglimento nel Pd e alla sua ultima, sfortunata candidatura a sindaco di Roma.
Eppure il mito di quella stagione di rinnovamento e dei suoi campioni ha resistito granitico lungo tutti questi quindici anni, nonostante tante critiche e tante premature esequie. “C’era una volta il partito dei sindaci”, scriveva su Repubblica Ilvo Diamanti il 26 maggio del 2002. “E’ finita la stagione del partito dei sindaci”, diceva all’Unità Leonardo Domenici, già allora sindaco di Firenze e presidente dell’Anci, il 9 maggio del 2000. “E’ finita la stagione del partito dei sindaci”, replica adesso sotto identico titolo Giorgio Tonini al Messaggero.
E sembra davvero una nemesi, per chi di quella lunga onda sembra aver colto davvero l’ultimo sussulto vincente, prima dell’inevitabile risacca. Ancora il 29 aprile scorso, il senatore del Pd Stefano Ceccanti, esperto di fiducia del segretario per le riforme istituzionali, spiegava sul Riformista che “le trasformazioni istituzionali post 1993” e “il sistema dei sindaci” dimostravano che “regole ben congegnate possono produrre spesso buona politica”. E lo stesso Veltroni, in un convegno con Gianfranco Fini del 31 gennaio 2007, lanciava la sua proposta di riforma costituzionale e di legge elettorale sul modello del sindaco d’Italia. Antica convinzione dell’allora sindaco di Roma, che già il 5 novembre 2006 l’aveva rilanciata con un’intervista a Repubblica (epurata persino dalla rassegna stampa dei Ds, come notò l’Espresso, tanto fu sgradita ai suoi colleghi in quel momento al governo). “E’ il momento di esprimere una profonda, diffusa responsabilità nazionale”, diceva Veltroni, incoraggiando le forze politiche a tornare al tavolo delle riforme e indicando loro un modello preciso, conosciuto e vincente. “E’ il modello dell’elezione dei sindaci, che ha funzionato in modo egregio in questi tredici anni, e ha ridato slancio alle città”.
Non era certo un’opinione isolata, allora, quando tutti i giornali usavano contrapporre la nuova classe dirigente che emergeva dalle amministrazioni locali (a cominciare da Veltroni) ai vecchi e stanchi burocrati di partito. Un’idea che oggi nessuno si azzarderebbe a ripetere, forse perché anche quei sindaci, nel frattempo, sono invecchiati con loro. (il Foglio, 12 dicembre 2008)

2 commenti leave one →
  1. 14/12/2008 19:23

    “..Un’idea che oggi nessuno si azzarderebbe a ripetere, forse perché anche quei sindaci, nel frattempo, sono invecchiati con loro…”..e forse anche perchè le classi “dirigenti” locali o sono state battezzate e benedette dall’alto o non esistono più…forse, anche, per il pericolo “cacicchi”?

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  1. DestraLab » Su Internet già lo acclamano leader nazionale

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