Il Pd è un campo di battaglia anche in libreria (come il liberalismo)
Roma. In piena campagna elettorale e a pochi mesi dal suo primo congresso – un congresso in cui non è ancora dato di sapere quali e quanti saranno i candidati alla leadership, dunque di cosa discuteranno – del Partito democratico e del suo futuro si discute parecchio in libreria. Dal saggio di un protagonista, forse anche del prossimo congresso, come Enrico Letta, “Costruire una cattedrale” (Mondadori), a quello di un osservatore come il giornalista dell’Espresso Marco Damilano, “Lost in Pd” (Sperling & Kupfer). Ma il libro probabilmente più politico, e questo è certo un segno dei tempi, lo ha scritto un tecnico (ancorché di solida esperienza politica) come Salvatore Biasco, ordinario di Economia internazionale, già deputato dei Ds e poi coordinatore della commissione sulla riforma del fisco voluta dal viceministro Vincenzo Visco durante l’ultimo governo Prodi.
“Per una sinistra pensante”. Questo il titolo del saggio che uscirà alla metà di giugno per Marsilio, quando cioè la campagna elettorale sarà finita. E la campagna congressuale appena cominciata. Dunque nel momento migliore per quello che non vuole essere “un libro di denuncia o di ricostruzione polemica”, come spiega l’autore nell’introduzione, ma di “proposizione costruttiva di idee e valutazioni”. Anche se – precisa subito – è difficile “glissare su distorsioni e omissioni macroscopiche”.
Il libro tuttavia “non entra nel merito di alcuna specifica questione programmatica”, come pure sarebbe lecito attendersi da un tecnico. E in questa apparente contraddizione sta forse il senso più profondo del saggio, anche (e tanto più) in vista del congresso di ottobre. Non certo, s’intende, come contributo volontario a una lotta di fazione, i cui confini sono peraltro ancora tutti da decifrare, e forse anche da definire. Del resto, le critiche di fondo mosse da Biasco al Pd chiamano in causa tutti i suoi principali dirigenti, e prima ancora i dirigenti dei suoi partiti costitutivi, Ds e Margherita. E qui sta l’interesse del libro, capace di indicare chiaramente e senza giri di parole i problemi di fondo (finora o ignorati o rimossi), come forse solo un intellettuale che è al tempo stesso un tecnico e un militante appassionato, ma sempre lontano da ogni ruolo dirigente, può permettersi di fare.
Il problema principale, sostiene Biasco, è che “oggi il Pd non sembra in grado di elaborare un pensiero autonomo, o di mobilitare in maniera significativa forze intellettuali, né di correggere abiti mentali che attengono a un particolare modo di concepire la politica”. La prima questione da affrontare riguarda dunque “i conti da fare con il pensiero liberale”. Perché i “timidi tentativi di innovazione e smarcamento dalla tradizione” che sono venuti dal Pd (e prima da Ds e Margherita) sono andati tutti in questa direzione, incoraggiati da quelle che lo stesso Biasco definisce le sue “élites migliori”, sulla base di una diagnosi dell’Italia come “società bloccata da corporativismi e logiche relazionali”, da curare soltanto con massicce dosi di “competizione e mercato”. Una linea almeno in parte condivisibile anche per Biasco, ma adottata proprio nel momento in cui cresceva “una domanda diffusa che, ben prima della crisi finanziaria ed economica, si rivolgeva verso lo stato chiedendo protezione e governo di una situazione caotica che diffondeva insicurezza verso il futuro”. Un “cambio di paradigma” che la destra ha colto prima, anche perché “ha guardato alla globalizzazione in modo meno idealizzato” (“anche se non per questo corretto”, aggiunge subito Biasco, scongiurando così almeno in parte il rischio di vedersi affibbiare l’etichetta di tremontiano). Del resto, giusto pochi giorni fa, Massimo D’Alema ha parlato di un “liberalismo antipolitico” a lungo egemone anche a sinistra. Precisando subito, però, che non si trattava di tornare indietro, ma di considerare quanto lo stesso liberalismo sia “un campo di battaglia”. Volendo, si potrebbe dire lo stesso della globalizzazione (ma questo D’Alema non lo dice e forse non lo pensa nemmeno), dove il processo di integrazione non avviene semplicemente e irenicamente attraverso il graduale estendersi di “regole” sempre più progressive ed efficaci, ma nel fuoco di una battaglia politica ed economica. E forse anche a questo allude Biasco, quando tra le cause della scarsa prontezza di riflessi dimostrata dalla sinistra dinanzi a quel “cambio di paradigma”, da collocarsi verosimilmente tra gli anni Novanta e Duemila, mette non solo un certo “modo romantico di vedere il mondo”, ma anche “un’acritica contiguità con le élites finanziarie”. (il Foglio, 27 maggio 2009)
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