Il neo Correntone
Roma. La tregua chiesta da Dario Franceschini fino ai ballottaggi ufficialmente è ancora in piedi, come ricordano con sempre minore convinzione i pochi che non si sono già schierati. Di fatto, però, ogni ipotesi di sospensione delle ostilità è andata in pezzi da almeno due giorni. Da quando cioè Walter Veltroni ha annunciato la sua iniziativa a sostegno della candidatura Franceschini, presentando il congresso come la sfida decisiva tra vecchio e nuovo, tra chi vuole andare avanti e chi vuole tornare indietro, tra signori delle tessere e popolo delle primarie. In altre parole, tra Massimo D’Alema e Walter Veltroni.
La rappresentazione di una guerra per procura, con Pier Luigi Bersani e Dario Franceschini nel ruolo dei burattini dell’uno o dell’altro, non può entusiasmare i due candidati, e tanto meno i loro rispettivi sostenitori, alleati e compagni di strada. “Nessun esponente del Pd, quale che sia la sua provenienza, pensa di tornare indietro”, dichiara per esempio Piero Fassino, che pure non nasconde il suo orientamento per Franceschini. “Se le cose stanno così, si presentino direttamente Veltroni e D’Alema”, dice la senatrice (ex Ds) Magda Negri. “Se c’è un elemento che interessa poco al Pd, alla sua prospettiva e alla credibilità del progetto politico è l’eventuale ritorno del derby tra D’Alema e Veltroni”, dichiara il popolare Giorgio Merlo. “Tutto possiamo permetterci meno che un congresso incentrato su Veltroni e D’Alema”, ribadisce Pierluigi Castagnetti.
E’ evidente che l’endorsement veltroniano ha suscitato una certa inquietudine, specialmente tra gli ex democristiani. Con la sua mossa, infatti, l’ex segretario ha messo una pesante ipoteca sul loro candidato, ha definito confini e parole d’ordine della loro futura mozione congressuale, ma soprattutto ha collocato se stesso in quel ruolo a metà tra regista e king maker che finora era stato sempre attribuito a D’Alema.
E così è cominciata la guerra degli spettri. Oltre al fantasma dell’eterno duello tra gli ex diessini, infatti, sul congresso di ottobre si aggirano tutte le ombre che hanno popolato gli incubi dei democratici in questi anni, a cominciare dalla scissione. Giusto ieri i vertici del Pd hanno ratificato la scelta di aderire al gruppo dell’Asde (Alleanza dei socialisti e dei democratici europei) nel Parlamento di Strasburgo. Francesco Rutelli ha messo a verbale le sue critiche, senza compiere gesti di rottura. Ma le dichiarazioni degli uomini a lui più vicini lasciano aperte tutte le prospettive. Del resto già ieri, in un’intervista al Giornale, Paola Binetti accusava Franceschini di non avere rispettato i patti. E aggiungeva: “Se non si sciolgono i nodi non vedo lo scandalo di pensare a qualcosa di nuovo”.
Ad agitare i sonni di Bersani e D’Alema è però soprattutto un altro fantasma, quello del congresso di Pesaro. Il first strike veltroniano di due giorni fa appare infatti come il primo pezzo di una strategia complessa. Nel 2001, al congresso che i Ds tennero a Pesaro all’indomani di un’altra pesante sconfitta elettorale, l’allora neosindaco di Roma si tenne ufficialmente sopra le parti. Ma il Correntone che candidò Giovanni Berlinguer, con l’aperto appoggio della Cgil di Sergio Cofferati e dell’Unità di Furio Colombo, doveva il nome – per l’appunto – alla confluenza nelle sue file di veltroniani e sinistra storica. A differenza di allora, però, oggi non solo Veltroni si schiera apertamente. Ma del neocorrentone franceschiniano fa parte a pieno titolo anche Piero Fassino, che a Pesaro era invece il candidato del fronte opposto. E proprio lui, a quanto si dice, si starebbe muovendo per ripetere l’operazione condotta a suo tempo sull’Unità. Entrata in crisi la soluzione garantita da Renato Soru, per salvare il giornale diretto da Concita De Gregorio il nome che circola da tempo è quello del senatore Raffaele Ranucci, imprenditore romano da sempre in ottimi rapporti sia con l’ex sindaco Veltroni sia con il suo predecessore Rutelli. Quanto alla Cgil, la posizione di Guglielmo Epifani appare ancora difficile da decifrare, mentre Sergio Cofferati ha già dichiarato il suo sostegno a Franceschini, così come l’ex ministro del Lavoro, ed ex sindacalista della Cgil, Cesare Damiano. A un simile schieramento, già tutt’altro che disprezzabile, bisogna poi aggiungere l’appoggio esterno di Repubblica. Quello che al Correntone del 2001, persa la guerra per la segreteria, fece perlomeno pareggiare la pace (dopo un anno di guerriglia post congressuale tra girotondi, accuse di Nanni Moretti e mobilitazioni cofferatiane).
“Il Pd ha molti problemi con cui finalmente, dopo le elezioni, dovrà misurarsi, e quello della leadership non è certo il primo”, dice Pierluigi Castagnetti. L’ex segretario del Partito popolare, e con lui tutti gli scontenti di un congresso concepito come una guerra per procura, resa dei conti finale tra dalemiani e veltroniani o rivincita di assise diessine vecchie quasi di dieci anni, gran parte delle sue residue speranze le affida alla direzione fissata per il 26, a ballottaggi finalmente chiusi. “Io credo sarebbe giusto – spiega – cominciare da una discussione politica, e cioè chiedendoci come mai questo partito finora non sia riuscito a incontrare il consenso di tanta parte della società italiana”.
La risposta che a questa domanda offre l’appello di Veltroni per Franceschini è chiara: la ragione è la persistenza del vecchio, il logorio cui la leadership del Pd sarebbe sottoposta dalle correnti e dalla loro perenne litigiosità, l’eterna persistenza degli apparati. Di qui la necessità di rilanciare le parole d’ordine della vocazione maggioritaria e del partito aperto, del rinnovamento e delle primarie. Parole d’ordine che corrispondono naturalmente, come sempre, anche a un’idea di gruppo dirigente, in cui buona parte dei popolari fa però qualche fatica a riconoscersi. E lo stesso, per altre ragioni, può dirsi degli ulivisti, da Arturo Parisi a Rosy Bindi, ben più sensibili dei popolari al richiamo delle primarie e di un “partito degli elettori”, ma da sempre assai critici con i sostenitori della vocazione maggioritaria. E’ evidente, pertanto, che la naturale dinamica congressuale spingerà entrambi i contendenti a smussare gli spigoli, nel tentativo di allargare il proprio campo. Bersani, incassato il sostegno di Enrico Letta e probabilmente già pronto a raccogliere la bandiera dell’Ulivo, si sposterà inevitabilmente su posizioni sempre più modernizzatrici e liberali (non a caso una delle sue prime iniziative celebrerà i tre anni dalla sua celebre “lenzuolata” di liberalizzazioni), mentre Franceschini, a questo punto, dovrà muoversi in senso contrario. E a garantire dal rischio di un congresso incentrato esclusivamente sulle persone e senza politica, paradossalmente, sarà proprio il confine segnato dalla rinnovata contrapposizione tra veltroniani e dalemiani, tra sostenitori della vocazione maggioritaria e fautori di un nuovo centrosinistra. Una divisione, come si vede, che da anni rispecchia fedelmente tutte le principali divisioni politiche che il Partito democratico ha sin qui incontrato, e rimosso. All’iniziativa veltroniana del 2 luglio, per fare un solo esempio, ci saranno anche il senatore Pietro Ichino e soprattutto l’economista Tito Boeri, autorevoli esponenti di una linea di pensiero liberale, in materia di riforme economiche e sociali, che va ben oltre le soffici “lenzuolate” di Bersani. (il Foglio, 17 giugno 2009)
vorrei esprimere il mio complesso pensiero sull’ennesima sfida all’OK Corral del PCI: che due scatole
Aspetto con ansia la venuta di un politico che creda profondamente in un cambiamento cultulare nella sinistra. Qualcuno in grado di evitare di parlare di dettagli politici ma che fondi la propria battaglia politica sulle differenze culturali tra destra (politica) e sinistra (politica). Verranno da sé le altre considerazioni, economiche e sociali. Veltroni aveva capito questa cosa per Roma con le numerose iniziative culturali, non lo ha fatto minimamente a livello nazionale.
Traduco dal ‘De divinatione secundae Rei Publicae’:
“Quanto alla principale forza della sinistra, ogni volta che i suoi due maggiori capi, D’Alema e Veltroni, si scontrano tra loro, vedrai il loro partito aumentare il suo consenso e giungere alla guida dello Stato; ma quando i due trovano un accordo e affrmano di essere in perfetta sintonia, il loro partito si immiserisce, distrugge sistematicamente i propri goveni e lascia infine il campo libero agli avversari”.
Il punto è che nessuno di questi si è mai riconosciuto in questo partito. Lo stesso Veltroni lo ha fondato dicendo di volerne fare altro, per non parlare di quelli che lo accusano di averlo massacrato. Epperò, come lo sostieni se ti fa schifo? Questi hanno tutti la loro ricetta per cambiarlo, ma cambiare cosa? È mai stato davvero un partito in cui qualcuno (non parlo della base ma dei vertici) si sia riconosciuto, anche solo per un attimo? E portando l’idea all’estremo, se non è un partito (nel senso di aggregatore di opinioni) come fa a fare politica? E infatti non la fa, quando va bene reagisce a iniziative politiche altrui, quando va male si aggrega a irrilevanti questioni personali, coniugali o extraconiugali poco importa.
La politica la fanno singolarmente per conto loro, in casa loro…..e infatti non si mettono mai d’accordo su nulla. Auguroni :-)