Macaluso, il Pd e la disputa su Berlinguer
Roma. La discussione sull’eredità di Enrico Berlinguer sembra destinata a non finire mai. Forse perché in realtà, come sembra dire Emanuele Macaluso nell’articolo pubblicato in questa pagina, la sostanza della questione non è mai stata affrontata. E la sostanza della questione, ovviamente, non riguarda soltanto la figura, le virtù e i limiti di Berlinguer, ma l’intera parabola del Partito comunista italiano.
Come sostiene Roberto Gualtieri, vicedirettore dell’Istituto Gramsci e oggi eurodeputato del Partito democratico, proprio “la mancata elaborazione di quell’esperienza”, il desiderio di superarla senza farci i conti, ha portato già con la svolta di Achille Occhetto “a spericolati tentativi di innovazione radicale che poi, come sempre, si risolvevano nell’esatto opposto, nel massimo della conservazione, perché solo l’elaborazione critica del passato consente davvero di superarlo”. Il massimo della discontinuità che produce il massimo del continuismo. E forse solo così si spiega come mai, a venticinque anni dalla morte di Berlinguer e a venti dalla caduta del muro di Berlino, finito il Pci, chiuso il Pds e sciolti ormai pure i Ds, la discussione e la polemica sull’eredità di Berlinguer siano ancora attuali, e forse più attuali che mai.
Dal famoso “Dimenticare Berlinguer” di Miriam Mafai negli anni Novanta fino al più recente “Compagni di scuola” di Andrea Romano, sia pure da punti di vista e con argomenti diversi, in molti hanno individuato nell’eredità berlingueriana uno dei principali ostacoli alla formazione di una moderna sinistra di governo in Italia. Spesso si è parlato di una trappola identitaria da cui i gruppi dirigenti dell’ex Pci non sarebbero mai usciti, nonostante le ripetute e sempre più radicali soluzioni di continuità, dal Pds fino al Pd. “Quello che certamente è rimasto è una certa predilezione per le terze vie”, osserva lo storico Miguel Gotor. “Terze vie che poi sono delle vie di fuga, sempre disastrose, come dice Macaluso”.
In compenso, il continuo alternarsi di apologie e demonizzazioni non sembra avere scalfito in alcun modo la forza di quella che è rimasta comunque e nonostante tutto una delle figure più popolari e venerate nella storia del Pci. “Per buona parte della mia generazione – sostiene ironicamente il trentottenne Gotor – parlare di Berlinguer è come parlare di Pelè. Tutti dicono che è stato senza dubbio il migliore di tutti, ma chi lo ha mai visto giocare?”.
D’altra parte, la memoria di Berlinguer è legata prevalentemente alla sua ultima fase. Nel dibattito pubblico è ricordato continuamente come il leader severo della “questione morale” e della “diversità” comunista. “Una posizione che può funzionare se sei all’opposizione – osserva Gotor – ma che nelle stesse file comuniste non avrebbe retto a lungo alla prova delle giunte di sinistra”. D’altronde quella era la fase del ripiegamento, quando di fatto, dopo l’assassinio di Aldo Moro, il Pci rimane senza una strategia. La strategia berlingueriana del compromesso storico, come mostra il libro di Silvio Pons (“Berlinguer e la fine del comunismo”), era innanzi tutto una linea di politica internazionale. Una linea che al fondo poggiava sulla convinzione che la distensione tra Stati Uniti e Unione sovietica aprisse uno spazio, in Europa e non solo, per un “socialismo dal volto umano” e per un processo di autoriforma del comunismo, sia pure graduale. Una concezione avversata però da entrambe le superpotenze, e soprattutto da Breznev, che nella distensione vedeva al contrario la condizione per consolidare la posizione dei due “paesi guida” nei rispettivi “campi”. Di qui la contraddizione segnalata da Macaluso: un Pci che attribuisce l’assassinio di Moro a ragioni internazionali (l’insuperabilità della pregiudiziale anticomunista in Italia) e al tempo stesso ritiene possibile andare oltre il semplice ingresso nella maggioranza senza prima affrontare e risolvere pienamente il problema internazionale del suo legame con l’Urss. Dunque senza affrontare la questione della sua identità comunista. Un’identità che il segretario del Pci, sempre orgogliosamente “fedele agli ideali della sua giovinezza”, non volle mai mettere in discussione.
Il parallelo tra le difficoltà incontrate da Berlinguer e quelle dei suoi successori, una volta venuto meno il comunismo e il bipolarismo mondiale, rischia dunque di essere assai ingeneroso nei confronti del primo, ma non manifestamente infondato. Del resto Macaluso non è il solo a sostenere che la crisi del Pci sia cominciata proprio con Berlinguer.
“Penso anch’io – dice Gianni Cuperlo – che la crisi del Pci dopo l’84 non fosse legata semplicemente al fatto che non disponeva più di un leader della statura e del carisma di Berlinguer, perché nasceva da prima”. Oggi parlamentare del Partito democratico, ma pure ultimo segretario della Federazione dei giovani comunisti italiani ai tempi della svolta, anche Cuperlo è convinto che il limite principale del berlinguerismo, pienamente ereditato dai suoi successori, fosse in quella costante ricerca di una “terza via” che nella realtà non si dava, tanto più evidente nel passaggio decisivo dal Pci al Pds, quando alla scelta di una piena e conseguente adesione al socialismo europeo si preferisce la “linea dell’oltrismo”. Il filo di continuità dall’ultimo Berlinguer ai suoi eredi sembra dunque rintracciabile in questo tentativo di aggirare o rimuovere difficoltà che erano forse comunque insuperabili, almeno ai tempi di Berlinguer. E così, dal tentativo di tenere insieme i poli opposti di ogni dilemma in un unico ossimoro (l’eurocomunismo, il compromesso storico, il partito di lotta e di governo, l’essere rivoluzionari e conservatori) si passa al tentativo di superarli entrambi semplicemente “andando oltre”. Oltre il comunismo, ma anche oltre la socialdemocrazia, ad esempio. E in fondo ancora oggi il dibattito interno al Partito democratico sembra oscillare proprio tra queste due impostazioni, tra il tenere insieme (le due grandi tradizioni di Pci e Dc) e l’andare oltre (tutto).
Non per nulla, allo scioglimento dei Ds nel Pd Macaluso è stato nettamente contrario, da sempre convinto che per la sinistra italiana proveniente dal Pci il punto di approdo dovesse essere il socialismo europeo, senza inseguire nuove peculiarità e terze vie. Si potrebbe anche dire, però, che la recente creazione di un nuovo gruppo parlamentare a Strasburgo (l’Alleanza dei socialisti e dei democratici europei) dimostri al contrario come una terza via, in questo caso, si desse. E che il progetto del Partito democratico, pertanto, non era poi così irrealistico, velleitario e fuori dalla realtà. Sempre che al prossimo congresso “la trappola identitaria” non torni a occupare l’intera discussione e a dividere il partito, impedendogli tanto di “andare oltre” le sue diverse tradizioni originarie quanto di tenerle insieme. (il Foglio, 25 giugno 2009)