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Tutti i bachi che possono avviare il Big Bang

21/07/2009

Roma. Qualcuno lo definisce un “bug”, come il famoso baco del millennio che avrebbe dovuto mandare in tilt tutti i computer del pianeta. Altri lo paragonano al caso dell’acceleratore di particelle del Cern di Ginevra, quello che secondo alcuni scienziati avrebbe potuto causare nientemeno che la fine del mondo (“Ma la probabilità è molto bassa”, aggiungeva qualcuno). Il caso riguarda ancora una volta il complicatissimo meccanismo congressuale del Partito democratico, anche se la falla stavolta non si trova nel già molto criticato statuto (opera, secondo Franco Marini, di qualche “Dottor Stranamore”), ma nel regolamento delle primarie, in base al quale il candidato che raccolga la maggioranza assoluta dei voti potrebbe anche perdere.
Al Messaggero, che domenica ha sollevato il caso, il deputato del Pd Salvatore Vassallo ha dato nel merito una risposta simile a quella degli scienziati di cui sopra: “Il rischio di un caso Bush-Gore (con la vittoria del primo anche se il secondo ha ottenuto più voti) è comunque minimo, vista la forte proporzionalità del sistema”.
L’origine del problema sta nel fatto che alle primarie del Pd non si vota direttamente per il candidato, ma per la lista che lo sostiene. E uno stesso candidato può essere sostenuto da diverse liste, che concorrono separatamente per i seggi dell’assemblea nazionale in palio in ciascuna regione, e separatamente accedono pertanto al calcolo dei resti. Non c’è bisogno di addentrarsi negli aspetti tecnici per capire che maggiore è il numero delle liste, maggiore il rischio che un candidato possa raccogliere più voti, ma meno seggi. E non essere eletto.
Per ridurre il rischio, Roberto Gualtieri invita Pier Luigi Bersani, Dario Franceschini e Ignazio Marino a presentare un’unica lista ciascuno. Rosy Bindi sostiene da tempo questa posizione – convinta che la moltiplicazione delle liste sia la vera origine del correntismo – e in tal senso preme su Bersani, ma a questo punto sembra improbabile che Bersani e Franceschini possano privarsi di una leva comunque efficace: più liste significa infatti più candidati, e più candidati, specie al sud, significa più voti. Un meccanismo che in verità, più che il modello americano, ricorda il modello siciliano (quello sperimentato con successo da Raffaele Lombardo). Del resto, se la soglia del 50 per cento non fosse superata da nessuno – ipotesi resa verosimile da un terzo incomodo come Marino – è sicuro che il segretario non sarà eletto dalle primarie, ma dai delegati all’assemblea; i quali dovranno sceglierlo, a norma di statuto, tra i primi due classificati. Dunque, pure qui, nulla impedirebbe loro di eleggere il secondo.
Anche tra i sostenitori di Franceschini, che delle primarie e del partito aperto ha fatto la sua bandiera, Marini non è il solo a prendersela con lo statuto. Piero Fassino ripete da tempo che quelle regole delineano “un’idea di partito che vogliamo superare”, come ha detto in direzione, convinto che il voto europeo “ci consegna un bipolarismo non bipartitico, ma plurale”.
Ormai però le regole sono state fissate, anche se soluzioni come quella proposta da Michele Emiliano (sì alle primarie, purché non contraddicano il voto degli iscritti), per non dire della surreale vertenza con Beppe Grillo, non trasmettono una sensazione di grande sicurezza. E il Pd, a questo punto, può solo augurarsi che il gigantesco “acceleratore di particelle” messo in moto con primarie così congegnate non si dimostri più efficace di quello del Cern, e non produca davvero il Big Bang. (il Foglio, 21 luglio 2009)

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