Uscire dal mainstream ulivista
All’indomani del voto che ha tenuto il paese in sospeso per settimane, il governo si dice pienamente soddisfatto del risultato e deciso ad andare avanti, il Pd lo stesso e l’Udc pure. Persino i finiani – per quanto, almeno loro, soddisfattissimi del risultato non possono essere – vanno avanti. E soddisfatto si dice pure Nichi Vendola. Con l’unica differenza che nel suo caso, effettivamente, è la verità. Tra gli altri, l’entusiasmo non abbonda, come testimonia l’intervista di Massimo D’Alema a Repubblica, che non si segnala per pacatezza, e riconferma la linea seguita sin qui (o almeno la sua interpretazione di tale linea). E così lascia intatto quello che appare come un serio problema di iniziativa politica, da parte del Pd, che sembra subire sempre l’iniziativa altrui e non riuscire mai a condurre il gioco.
L’impressione, anche dal comizio di piazza San Giovanni, con i ripetuti omaggi a Romano Prodi e con gli auguri a Carlo Azeglio Ciampi, è che Pier Luigi Bersani cerchi una posizione “centrista” (rispetto al centrosinistra, s’intende). Una sorta di “mainstream ulivista”. E’ su questa solida continuità che si è saldata la nuova maggioranza interna, che include Dario Franceschini, senza escludere né D’Alema né Rosy Bindi. E lo stesso Walter Veltroni, se questa resta la linea, non tarderà a rientrare (si accettano scommesse).
Se questo è lo schema, però, è difficile immaginare uno sbocco diverso da quello del ’94, con un polo di sinistra (Pd-Idv-Sel), uno di centro (Udc-Fli) e uno di destra (Pdl-Lega). In questo schema, peraltro, l’unica proposta sensata per pacificare e insieme ridare l’iniziativa al Pd sembrava quella di Nicola Latorre: sfidare i tanti aspiranti leader del centrosinistra, e primo tra tutti Vendola, a entrare nel Pd. E lì, nelle primarie per la scelta del leader di un partito così rifondato, misurarsi con Bersani e con tutti gli altri che abbiano qualcosa da dire. Proposta che però non è piaciuta a Bersani e non ha avuto seguito. Qual è dunque l’alternativa?
L’alternativa sarebbe cambiare schema. Uscire dal mainstream, smetterla di chiedere scusa, uscire dalla logica che ha guidato tutti i leader di centrosinistra degli ultimi quindici anni: chiuderla con le primarie, con la religione del bipolarismo, con la mistica del nuovo e della società civile (quella di agopuntori come Scilipoti ed ex pm com Di Pietro, che proprio in questi giorni manifestava a Montecitorio con cartelli contro i “professionisti della politica”). Annunciare con chiarezza questa svolta e prepararsi, naturalmente, a una durissima controffensiva, con le solite accuse di chiusura autoreferenziale e restaurazione partitocratica. Giunti a questo punto, però, è forse un prezzo inevitabile, per uscire dal meccanismo che ha stritolato il centrosinistra e che rischia ora di distruggere anche il Pd. (il Foglio, 16 dicembre 2010)
Caro Cundari lei centra il problema ma individua gli ostacoli sbagliati. Il suo progetto di restaurazione di qualcosa che somigli a un partito per realizzarsi avrebbe bisogno di due elementi fondamentali che ogni istituzione che si rispetti possiede: divieti e ritualità. Non a caso l’unica istituzione ancora in piedi dopo 2000 anni è la chiesa cristiana che si basa ancora su divieti e riti ed era il vero modello di tutti i partiti comunisti e dei tradizionali partiti di massa. Del resto che cos’era il centralismo democratico se non il divieto di esplicitare in maniera rozza e confusionaria opinioni puramente personali che avrebbero potuto distruggere l’unità politica del partito? Cosa erano gli infiniti riti di quel partito, se non la volonta di santificare periodicamente (in maniera laica beninteso) ogni passaggio della vita politica interna?
Oggi è possibile tutto ciò? C’è qualcuno tra i “dirigenti” del PD che ha l’intelligenza di capire che il divieto di dire qualunque stronzata gli passa per la mente non è mettersi la musereuola ma semplicemente impedire conflitti interni dalla portata distruttiva? C’è qualcuno che ha l’acume per capire che tutti quei riti a volte bizzarri su cui si fondavano i partiti di massa servivano a dare senso e identità alla vita politica interna ed esterna?
Dunque il problema non sono le primarie (che anzi potevano diventare il vero rito fondativo del Pd) o la società civile dei lettori di Repubblica (che in quanto a riti e divieti potrebbe fare scuola) ma l’insipienza politica di un gruppo dirigente (vecchio e nuovo per intenderci) che quando pensa ai problemi del proprio partito e del paese guarda dritto verso il proprio organo sessuale…
Cordiali saluti
Renè condivido in pieno la sua analisi.
Credo che la mancanza di regole condivise e precise abbia tolto il potere agli iscritti ed ai non iscritti di trovare un partito capace di avere un’opinione.
Gli steccati del Novecento qualcuno li chiamava prima che il Pd fosse effettivamente nato.
E la proposta di Latorre si rifiuta ancora di capire che il riunire entità politiche differenti senza un reale legame politico (la coalizione non può diventare partito!).
Un congresso fondativo si limita ad un incontro festoso.
Si dimentica spesso che ad unire le persone dentro un partito è il guardare tutti verso uno stesso obiettivo.
Di Pietro politicamente si “unisce” al Pd solo per l’altiberlusconismo.
Basta questo a giustificare un’altra fusione (a freddo a caldo a tiepido come più vi aggrada..)?