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Pensieri di un Bersani forse troppo ottimista

14/04/2011

La chiave del libro di Pier Luigi Bersani, “Per una buona ragione” (Laterza), si trova già nelle primissime pagine, solo un po’ nascosta dietro l’apparenza di una notazione marginale sul suo modo di esprimersi. Un linguaggio, osservano i due intervistatori, Miguel Gotor e Claudio Sardo, criticato da alcuni come “troppo colloquiale” e oggetto di una “divertente satira televisiva” (l’imitazione di Maurizio Crozza). E’ qui che Bersani, difendendo il suo sermo humilis, parla del valore democratico della metafora, che sostituisce i “termini propri o specialistici” con espressioni figurate, e che nel farlo “traspone l’intero concetto senza semplificarlo”, perché si basa “su un’intuizione immediata alla portata di tutti”. Il punto è che “chi ha meno strumenti non deve essere costretto a ricevere un messaggio parziale o impoverito”. E questo, conclude Bersani, confermando così il carattere metaforico della stessa digressione sulle metafore, è in fondo “il dovere di ogni buon politico, che altrimenti veste i panni del demagogo o del retore”. Quello che Bersani non dice è quanto sia scivoloso quel confine, tra divulgazione e semplificazione, dunque tra democratico e demagogico, popolare e populista.
“La nostra buona ragione – dice Bersani – è l’Italia”. Non il partito, che resta uno strumento, non la sinistra, non l’Altra Italia, non l’Italia perbene, l’Italia del valzer o l’Italia del caffè. Solo l’Italia: il paese che il Pd, “partito di governo provvisoriamente all’opposizione”, aspira a guidare e a cambiare. In questo senso, il libro testimonia fino allo sfinimento la capacità dell’autore di spaziare dai temi più generali della storia e della politica internazionale ai problemi più minuti dell’industria, ma anche della scuola, dell’ambiente, dell’energia. Segno di una vocazione di governo autentica che, se non è forse di tutto il Pd, è certamente del suo segretario. Tanto da venirgli spesso rovesciata contro in caricatura (l’“emiliano pragmatico”).
La seconda chiave del libro è in questa frase: “Se dieci naufraghi stanno in mezzo al mare, il capo non è colui che avoca a sé tutti i compiti, ma quello che offre maggiore sicurezza nel coordinare le attività di tutti. C’è sempre un’azione collettiva che dà senso e ragione a una leadership”. Qui sta la vera, grande battaglia non del Bersani amministratore e mediatore instancabile, ma del Bersani leader politico, capace di mettere persino per iscritto che il suo nome nel simbolo non lo metterà mai.
Ma non si può combattere su troppi fronti allo stesso tempo. Bersani ha scelto il fronte del “berlusconismo” che alligna – anche a sinistra – nella personalizzazione della politica, nella fascinazione per il “modello americano” (con tutti i suoi corollari istituzionali). Si può dunque rimproverargli, dopo tante belle parole sulla centralità del Parlamento, una certa subalternità alle campagne contro la politica, il Parlamento e i partiti da parte della grande stampa, soprattutto progressista (per non dire della linea molto diplomatica sempre mantenuta sulla Fiat, dopo tante belle parole sulla centralità del lavoro). Più in generale, rispetto a quel mondo progressista che piace alla gente che piace, si può rimproverare a Bersani un’impostazione difensiva. E forse, in fondo, una visione ottimistica: l’idea che il centrosinistra e tutto sommato anche l’Italia non siano messi tanto male, dunque che a nessuno dei due servano strappi violenti o ripensamenti troppo radicali. Sicuramente, questo libro insieme agile e impegnativo, e sempre onesto, testimonia che Bersani ha dalla sua molte buone ragioni. Ma che abbia anche ragione, in questa impostazione di fondo, resta da dimostrare. (il Foglio, 14 aprile 2011)

2 commenti leave one →
  1. 14/04/2011 10:22

    volendo far piacere a mio padre dimostrandogli che all’università, tra un corteo e un’occupazione, effettivamente studiavo, direi che già ricoeur (sulla scorta di gadamer, certo) o hilfrdung acennarono al valore democratico della metafora (e della scrittura metaforica), anche se non si posero il problema dell’effettivo rischio di demagogia. in quel periodo si discusse anche del valore rivoluzionario dell’allegoria e di quello reazionario del simbolismo.
    sembrano concetti astratti ma secondo me si calano bene sulle retoriche politiche, divenendone in parte disvelatori: i funambolismi ieratici e preteschi di vendola non rischiano tra il simbolismo e il latinorum? le metafore agresti di di pietro non abbondano di populismo?
    la differenza con bersani sta tutta in quel “chi ha meno strumenti non deve essere costretto a ricevere un messaggio parziale o impoverito”. sta tra buon senso e senso comune, per scomodare gramsci. tra intento educativo e intento fascinatorio.

    poi che crozza faccia qualcosa di divertente è una frase che rubrico nel surrealismo.

  2. Paolo permalink
    21/04/2011 14:51

    @andreamasala: Purtroppo sconfini troppo nella tifoseria, che è un altro dei frutti avvelenati del berlusconismo, per poter dar lezioni a Vendola. Obama pure è un populista perché sfrutta del carisma personale? Se senti Vendola sull’immigrazione è tutto fuorché populista. Eppure Vendola è sempre stato unitario, io e tantissimi come me, non militanti in un partito particolare, ma semplicemente elettori del centro-sinistra siamo stufi di frecciate tra “tifosi” delle rispettive parrocchie. A me sembra che Di Pietro ad esempio sia populista certo, spesso troppo critico verso il Pd, ma riconosco a Vendola invece una pazienza infinita: quanti insulti ha dovuto subire da esponenti di primo piano del Pd? A partire dal confindustriale Enrico Letta passando per gli ex-popolari, proprio Vendola che non ha mai messo veti su nessuno, nemmeno su Casini, pur contando quel 7-8% che permetterebbe al Pd di sperare di vincere, soprattutto se alleati anche con Idv, che sarà pure polemica e populista ma sempre meglio dell’Udc e soprattutto sappiamo essere leale. E’ ora che il Pd si faccia coraggio e costruisca l’alternativa, che non può essere che questa. Perciò concentriamoci contro Berlusconi & la sua cricca, contro le sparate razziste della Lega e tra di noi discutiamo di un programma comune, di quello che ci unisce e non di nomi che ci dividono. Per me la coalizione dovrebbe essere guidata da Bersani in quanto rappresentante del primo partito e giusta sintesi fra le varie posizioni, oltre che grandissimo politico, però si metta in moto questo processo, altrimenti avranno sempre buon gioco a dire che l’alternativa non è pronta…..

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