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Il problema è che in Grecia ci siamo già

14/03/2013

Il dibattito sulla formazione del nuovo governo è già diventato ripetitivo. Ma io continuo a pensare che sarebbe utile, invece, discutere un po’ di più e un po’ meglio non della campagna elettorale o della comunicazione del centrosinistra, ma di quello che è accaduto dal 12 novembre 2011, giorno delle dimissioni di Silvio Berlusconi, al 24 febbraio 2013, giorno delle elezioni. Di quello che è accaduto e di quello che nel frattempo abbiamo detto, scritto, letto e ascoltato. Delle analisi degli analisti, dei sondaggi dei sondaggisti, dei commenti dei commentatori.

Il tema principale di questa lunga fase è stato il rischio di finire “come la Grecia”. Il Pd ha fatto propria questa lettura e così ha giustificato l’appoggio al governo Monti. Il problema è che una larga parte degli italiani in Grecia c’era già: precari di trentacinque o quarant’anni che da questa condizione non sono mai usciti e piccoli imprenditori che in questa condizione sono stati spinti dalla crisi. Per loro il problema non era come evitare di finire in Grecia, ma come uscirne.

Nel frattempo, i provvedimenti, gli annunci, persino le promesse del governo Monti andavano in direzione opposta, nel solco di un’idea delle riforme necessarie al paese che strideva sempre di più con la realtà. Con una realtà, quella dell’Italia del 2012, che continuava a peggiorare per effetto della crisi, ma anche, almeno in parte, per effetto di alcune di quelle ricette che il dibattito pubblico – non solo il governo Monti – continuava a propagandare come la panacea di tutti i mali.

Faccio un solo esempio (che riprendo in parte da un discorso che fa spesso Matteo Orfini e in parte da un’analisi di Alessio Aringoli). Quei ragazzi che negli anni 90 si diplomavano sentendosi dire, anche dai governi di centrosinistra, che nulla avevano da temere dalla flessibilità, perché nella società della conoscenza – se avessero continuato a studiare e a specializzarsi – si sarebbero trovati ben presto a contrattare da pari a pari le proprie condizioni di lavoro con aziende che avrebbero fatto a gara per accaparrarseli, senza bisogno di sindacati e inutili rigidità normative. Tanti di quei ragazzi di allora oggi hanno 35 o 40 anni, nel frattempo hanno studiato fino a non poterne più, accumulando fior di lauree e dottorati, ma vivono ancora di un lavoro precario da poche centinaia di euro al mese che non consente loro nemmeno di lasciare la casa dei genitori. E dopo tutto questo hanno dovuto pure sentirsi dire che erano troppo “schizzinosi” e “mammoni”, che il problema erano loro.

Il movimento di Grillo è stato lo sbocco naturale per tante di queste persone, come per i piccoli imprenditori impoveriti dalla crisi. Penso alle parole inquietanti del presidente della Confartigianato di Treviso che ho letto qualche giorno fa sul Fatto, a commento della tragedia di Perugia: uno sfogo confuso e rabbioso contro le banche, lo stato, i partiti. Uno stato d’animo diffuso che Grillo ha saputo interpretare e alimentare nel modo più spregiudicato, strizzando l’occhio agli evasori fiscali nei suoi comizi al nord, promettendo il reddito di cittadinanza ai disoccupati del sud ed evocando Berlinguer e la questione morale a Bologna. Ma per quanto spregiudicato e criticabile possa apparirci Grillo nel cavalcare l’onda, resta il fatto che l’onda c’era, eccome.

Disoccupati e artigiani, precari e piccoli imprenditori, nord e sud. Un ceto medio che si è sentito schiacciare sempre di più verso la povertà, fuori dalla cittadinanza, fuori dal mondo. O perlomeno fuori dal mondo di cui si parla sui giornali e in televisione, quello che ha paura di finire come la Grecia e che per evitarlo non ha esitato ad approvare pressoché all’unanimità – partiti, giornali e televisioni – provvedimenti che in molti casi, per chi si trovava già al limite, hanno ulteriormente aggravato la situazione.

Nel pieno della drammatica crisi del novembre 2011 anche le misure più dure prese dal governo Monti credo siano state riconosciute come inevitabili dalla maggioranza degli italiani. Nel pieno dell’emergenza, per salvare il paziente, può essere necessario perfino amputargli un arto, questo lo capiscono tutti. Ma l’emergenza, per definizione, non può durare un anno. E se dopo un anno il medico è ancora lì con il bisturi in mano, a vantarsi dei tagli fatti e di quelli ancora da fare, c’è qualcosa che non va. Viene il sospetto che ci abbia preso gusto.

Io penso che a salvare il centrodestra dall’estinzione sia stato il prolungarsi molto oltre il necessario e il ragionevole del governo Monti. E l’abilità di Berlusconi nello sfilarsene appena in tempo, per condurre una campagna elettorale da opposizione. Così il centrodestra ha contenuto i danni, rovesciando sul centrosinistra tutto il peso di un governo assai più impopolare di quello che un sistema dell’informazione malato ha fatto credere agli stessi dirigenti del Pd (il che ovviamente non diminuisce le loro responsabilità, anzi). Una chiusura autoreferenziale che sospetto sia stata potentemente alimentata dalle primarie (altro che apertura alla società!).

Naturalmente può darsi che io mi sbagli, che abbiano pesato di più altri fattori. Ma se invece avessi ragione, allora le conclusioni da trarne, anche per il futuro, sarebbero un po’ diverse da quelle che si sentono ripetere in questi giorni. Di sicuro, se le cose stanno così, quello che serve al Pd non è la classica “svolta a sinistra”. Tanto meno, però, la risposta può essere riesumare Agenda Monti, riforma Ichino e modello Marchionne. Servirebbe qualcosa di nuovo, certamente. Ma nuovo davvero.

2 commenti leave one →
  1. 15/03/2013 01:58

    E invece non ti sbagli. Di nuovo. Accidenti!

  2. subcomandante permalink
    15/03/2013 02:02

    Tipo aridatece er PCI, tipo Marx e Lenin, per esempio. Mica per niente, ma risultano molto più “nuovi” di flexsecurity e grillismi vari. Vabbeh, opinioni mie…

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