Il ballottaggio tra la padella e la brace
In questo periodo, a causa della crisi Ucraina, i giornali di tutto il mondo si interrogano, sia pure sempre molto timidamente, sui limiti e le responsabilità occidentali nella gestione di quel grandioso processo di transizione alla democrazia che seguì il crollo del comunismo. Un dibattito per molti versi simile a quello che si sviluppò attorno alla guerra in Iraq, a proposito di nation building ed esportazione della democrazia. E proprio l’esito infausto della linea seguita da George W. Bush in Iraq (ma anche, più recentemente, la crisi egiziana) sembra avere ormai consolidato l’opinione che la democrazia è anzitutto stato di diritto, rispetto delle minoranze, strumenti di controllo e contrappesi adeguati al potere dei governanti eletti dal popolo, prima che governanti eletti dal popolo. Da questo punto di vista, l’Italia sembra l’unico caso in cui una simile evoluzione del dibattito ancora non sia nemmeno in vista, come dimostra finora la pessima discussione sul pessimo progetto di riforma chiamato Italicum.
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In proposito, vorrei segnalare ai più convinti sostenitori del segretario del Pd che le cose sono due. O Matteo Renzi riesce davvero e finalmente a invertire il lunghissimo ciclo di declino economico e paralisi politica in cui siamo immersi, oppure non ci riesce. Ebbene, se non ci riesce, siamo proprio sicuri di volere un sistema che “garantisca un vincitore netto” la sera del voto (quale che sia il numero di voti presi), con la legittimazione data dalla finzione dell’elezione diretta e con una maggioranza preconfezionata in quella che sarebbe (a riforma completata) l’unica Camera? Quali contrappesi realmente operanti ed efficaci resterebbero in piedi, a quel punto? In sistemi presidenziali come quello americano, oltre a esserci un sistema bicamerale con le relative garanzie, c’è soprattutto il fatto che per il parlamento non si vota a meno di due anni di distanza dalle presidenziali, al preciso scopo di impedire che con una campagna elettorale fortunata o per qualsiasi altro motivo chiunque possa fare cappotto e prendersi tutto il cucuzzaro, trasformandosi il giorno dopo in capo del governo con maggioranza parlamentare assicurata. Ammesso e non concesso che una simile condizione sia auspicabile in qualsiasi caso, abbiamo considerato cosa significherebbe concretamente una simile ipotesi all’indomani di un fallimento del governo Renzi, con due miliardari extraparlamentari già a capo di partiti personali tutt’altro che democratici come Silvio Berlusconi e Beppe Grillo?
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Naturalmente può ben darsi, come mi auguro, che Renzi ce la faccia. E che andiamo alle elezioni – tra due, tre o quattro anni – con un governo che per la prima volta possa dire di avere invertito la spirale depressiva. In questo caso, però, avremmo la prova provata, dopo vent’anni di bipolarismo paralizzante, che non erano i buoni vecchi principi della democrazia parlamentare a impedire le riforme, ma proprio la loro ventennale rimozione. Con il ritorno a un governo nato in parlamento sulla base di un accordo trasparente tra tutte le forze politiche e guidato dal leader del principale partito in quanto tale (e non per la finzione dell’elezione diretta come leader di coalizione), avremmo ottenuto finalmente quello che vent’anni di scontro tra coalizioni ingovernabili ci hanno finora negato. Sicuri che la cosa migliore sarebbe a quel punto una riforma che impedisse strutturalmente il ripresentarsi non già di quei ventennali problemi, ma dell’unica soluzione dimostratasi efficace? Proprio sicuri che all’indomani di un trionfo del governo Renzi, la cosa giusta da fare sarebbe una riforma che ne sancisse l’illegittimità politica e costituzionale?