Renzi e la sindrome Bobby Fischer
È probabile che ad agevolare la rapidissima scalata al potere di Matteo Renzi abbia contribuito non poco quella che potremmo chiamare la sindrome Bobby Fischer. Al fine di evitare spiacevoli equivoci, precisiamo subito: non stiamo sostenendo che Matteo Renzi assomigli a quel ragazzone dall’aria un po’ scema, che a trent’anni dimostrava ancora la cultura, le curiosità e gli interessi di un bambino dell’asilo, ed era pertanto letteralmente incapace di condurre una normale conversazione tra persone adulte che non vertesse su aperture, trappole e combinazioni scacchistiche. Stiamo sostenendo che questo effetto, almeno in una prima fase, Renzi sembra aver fatto ad avversari e rivali, suscitando in loro la stessa reazione che quel giovane spostato proveniente da Brooklyn dovette provocare in raffinati intellettuali della scuola sovietica come Boris Spasskij. Al quale l’americano Fischer, in piena guerra fredda, avrebbe strappato il titolo mondiale in un incontro leggendario, disputato in Islanda nel 1972, che lo rese per breve tempo un eroe del campo anticomunista (e qui, in effetti, un parallelo si sarebbe tentati di tracciarlo, considerando la vecchia battuta di Paolo Gentiloni su Renzi, che sarebbe andata benissimo anche per Fischer: il primo bambino che mangia i comunisti).
Chissà quale sdegno devono aver provato, di fronte alla sua ascesa, in quella piccola aristocrazia cosmopolita abituata a considerare gli scacchi come la regina delle discipline intellettuali. “Gli scacchi sono tutto – amava dire Anatolij Karpov – arte, scienza e sport”. Quale affronto, vedere quel ragazzotto dai modi così rozzi, sostanzialmente un impresentabile, umiliare i più grandi e riveriti maestri, e senza far nulla nemmeno per dissimulare il gusto sadico che gli dava il potere di incenerire in un istante le certezze altrui. “Mi piace il momento in cui spezzo l’amor proprio di un uomo”, avrebbe detto il rottamatore dell’antica scuola sovietica. Persino il suo nome, Bobby Fischer, doveva apparire fuori posto nel pantheon delle altisonanti divinità della gloria scacchistica mondiale, accanto a quelli di Alexandr Alekhine, Aaron Nimzowitsch, Michail Moiseevič Botvinnik. Un intruso, insomma.
Così è stato visto Renzi all’interno della sinistra. E così lo vedono ancora in molti, tra commentatori antipatizzanti e militanti delusi. Ma proprio questa dinamica ha spianato la strada alla corsa del rottamatore, che ha mostrato in questi anni un’abilità naturale nell’istupidire i suoi rivali, inducendoli a sottovalutarlo, a giudicarlo un avversario addirittura indegno di loro. Un atteggiamento che evidentemente non li ha aiutati, poi, a elaborare le sconfitte, autoalimentandosi piuttosto in un circolo vizioso di orgogli feriti e sterili ripicche che non ha fatto altro che ingigantire il suo dispettoso trionfo.
Difficilmente, però, Renzi potrà giovarsi di un simile vantaggio psicologico nella partita per il Quirinale: una gigantesca “simultanea” che il presidente del Consiglio dovrà giocare, bendato, contro buona parte dei mille grandi elettori chiamati a scegliere il successore di Giorgio Napolitano. L’outsider ormai ha vinto, ha scalato prima il Pd e poi Palazzo Chigi. Ora è lui il campione in carica. È lui l’uomo da battere.
Per quanto fuori dagli schemi, per quanto egli stesso ami ripetere che uscito da Palazzo Chigi si dedicherà ad altro, che gli piacerebbe fare l’insegnante o il conduttore televisivo, di sicuro Renzi non si sta apprestando a sparire nel nulla per i prossimi vent’anni, come fece Bobby Fischer, senza nemmeno provare a difendere il titolo. Stavolta, però, nessuno dei suoi avversari farà l’errore di sottovalutarlo: proprio come per Fischer, anche le statistiche di Renzi parlano di molte vittorie, qualche sconfitta e un numero incredibilmente basso di patte (che negli scacchi moderni, come in politica, sono l’esito più probabile di una partita). I molti nemici del patto del Nazareno faranno di tutto per impedirgli l’ultima vittoria e l’ennesimo sfregio: il selfie con il nuovo presidente della Repubblica appena eletto, scattato dal centro dell’emiciclo di Montecitorio in tripudio, magari proprio con la maglia di Totti che appena un anno fa gli regalò Massimo D’Alema.
(il Foglio, 17 gennaio 2014)