Il fantasma del Grande Centro
Non c’è da stupirsi se nella polemica sulle riforme Miguel Gotor rievoca il fantasma del “grande centro”. Il senatore del Pd lo fa per esortare la minoranza di cui fa parte a “evitare un possibile esito del disegno di Renzi”, vale a dire “un Pd neocentrista pigliatutto”, perché, come ha spiegato ieri al Corriere della sera, e come ripete da tempo lo stesso Pier Luigi Bersani, la democrazia “respira con due grandi polmoni, non con un grande centro che pensa di prendersi tutto”. Non c’è da stupirsi perché si tratta di un topos ormai ventennale del nostro dibattito pubblico. Piatto forte di tutti i retroscena, presenza fissa di ogni talk show, ingrediente immancabile di qualsiasi editoriale, analisi o intervista, il grande centro – o meglio: la sua imminente rinascita – rappresenta da vent’anni l’ossessione della politica italiana, lo spauracchio della Seconda Repubblica, la minaccia sempre incombente sulle sorti di partiti e governi.
Va detto che – almeno fino a ieri – raramente nella storia si è vista una maggiore sproporzione tra lo sconfinato esercito delle vittime predestinate e le sparute file dei presunti carnefici, rappresentati da partitini, leaderini e nano-movimenti composti perlopiù da vecchie glorie della Prima Repubblica, e più spesso dai loro ex portavoce, consiglieri o portaborse. Coloro che di volta in volta hanno tentato di dare corpo al sogno del grande centro – o come si diceva all’inizio, quando il suo cadavere era ancora caldo e il suo ricordo fresco: il ritorno della Balena Bianca, la rinascita della Dc – sono arrivati raramente molto oltre il primo convegno. E se per miracolo sono riusciti a raccogliere i consensi necessari a tuffarsi nel mare aperto di una campagna elettorale vera e propria, il giorno dei risultati li ha sempre ritrovati spiaggiati su percentuali buone al massimo per ottenere un paio di sottosegretari dai due partiti maggiori, o dalle relative coalizioni, rimasti entrambi ben saldi al loro posto.
Per vent’anni i sacerdoti del bipolarismo ci hanno messo in guardia dallo spettro del grande centro, che avrebbe rovesciato con una manovra di palazzo la rivoluzione maggioritaria, riportando il paese nelle sabbie mobili della legge elettorale proporzionale, del debito pubblico e della corruzione (nel frattempo, invece). A riprova della lucidità di simili vaticini, l’unico che in questi venti anni sia riuscito davvero a mettere in crisi il bipolarismo, nel 2013, è stato il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, che tutto può essere definito meno che una nuova Dc.
Le ragioni di una simile ossessione sono diverse, ma nessuna, come è evidente dai semplici dati di cronaca, ha mai avuto nulla a che fare con la realtà contemporanea. Per gli ex democristiani di sinistra, intrappolati per decenni dentro il partito di Andreotti e Forlani per ragioni internazionali, la rinascita del grande centro rappresentava il terrore di perdere nuovamente la libertà appena conquistata. Per gli ex comunisti, l’incubo di ritrovarsi ancora una volta relegati all’opposizione, magari per altri quarant’anni. Per tutte le forze più o meno estreme, la minaccia di essere espulsi dall’area della legittimazione non solo politica, ma persino sociale, in cui erano stati appena accolti, e insomma il rischio di tornare a sentirsi e a essere trattati come degli impresentabili. Resterebbe comunque da capire come fior di ministri e capi di governo, in tutti questi anni, abbiano potuto pensare seriamente che i partitini di Rocco Buttiglione o di Pier Ferdinando Casini, o qualche editoriale di Paolo Cirino Pomicino, fossero in grado di surrogare con le loro sole forze la fine della guerra fredda, la caduta del muro di Berlino e l’implosione dell’Unione Sovietica. Ma è un mistero che, temiamo, resterà sempre irrisolto.
Sta di fatto che oggi una legge elettorale proporzionale ci sarebbe, grazie alla Corte costituzionale, ed è proprio Matteo Renzi a giocarsi tutto nello sforzo di cambiarla, per salvare il principio (tante volte ripetuto da tutti i suoi predecessori alla guida del Pd) secondo cui “la sera del voto si deve sapere chi ha vinto”. Non si capisce dunque per quale ragione renziani e bersaniani debbano litigare pure su questo. L’ossessione per il grande centro non è infatti quello che li divide, ma quello che li unisce. Purtroppo.
(il Foglio, 11 marzo 2015)