Quel vecchio garibaldino del “ragazzo rosso”
Il suo nome di battaglia, “Nullo”, se lo era scelto in omaggio al patriota garibaldino Francesco Nullo. E in divisa da garibaldino Giancarlo Pajetta, di cui ricorrerà domani il 25esemo anniversario dalla morte, ci sarebbe finito sul serio, nel grande quadro di Renato Guttuso, “La battaglia di Ponte Ammiraglio”, che avrebbe a lungo campeggiato (in copia) nell’aula magna della storica scuola quadri del Pci, alle Frattocchie (nel dipinto si potevano riconoscere anche Luigi Longo e Antonello Trombadori, tutti in camicia rossa, nonché il reprobo Elio Vittorini, di cui era ancora fresca la rottura con il partito, in tenuta da ufficiale borbonico). E un garibaldino Pajetta sarebbe sempre rimasto, in tutti i sensi. Sempre alla carica, sempre all’attacco, mai arrendevole, mai abbattuto. Nemmeno nelle carceri fasciste, dove passò lunghi anni, la prima volta addirittura da minorenne, dopo essersi fatto espellere da tutte le scuole del Regno per propaganda sovversiva, e dalle quali avrebbe mandato ai familiari lettere piene di fiducia e ottimismo. Per esempio: “Io continuo a star bene. Se continuo così, fra ricostituenti e ginnastica svedese finisco per uscire un po’ meglio di quanto non sia entrato”. Anni dopo spiegherà che non voleva offrire munizioni al nemico, che scriveva così per non “spaventare nessuno a proposito di una vita che altri avrebbe dovuto avere il coraggio di affrontare”, ma rivendicando anche la volontà di non cedere allo sconforto. Una tentazione a cui avrebbe ceduto forse solo una volta, in un’intervista al Mattino del 1990, nel pieno del dibattito sulla svolta, in cui così commentava l’ipotesi di una scissione del Pci: “Sarebbe una tragedia. Non ho vissuto momenti peggiori di questo. Neanche in carcere ho sofferto tanto, questo è il momento peggiore della mia vita politica”. Purtroppo sarebbe stato anche l’ultimo.
Nato in una famiglia antifascista, Giancarlo era il primo di tre fratelli, tutti impegnati nella lotta partigiana. Il più giovane, Gaspare, morirà in battaglia nel 1944. Il secondo, Giuliano, finirà a Mauthausen, da cui uscirà dopo la liberazione per riprendere il suo posto nelle file del Pci. La figlia Elvira ha appena dedicato alle loro vicende, e in particolare a quella del padre Giuliano, un toccante libro di memorie: “Compagni” (Pietro Macchione editore). Giancarlo la sua storia l’ha raccontata in un libro autobiografico del 1983, “Il ragazzo rosso” (Mondadori). Ma il suo carattere irruento e la sua inesauribile vis polemica saranno affidati soprattutto a un’infinità di aneddoti tramandati da amici e nemici, vittime e complici della sua graffiante ironia.
Durante la guerra di Corea, dopo una rissa scoppiata in aula tra comunisti e democristiani al termine di un dibattito sullo scambio di prigionieri, aveva mandato un biglietto al democristiano Mario Melloni che recitava così: “Caro Melloni, perché non facciamo uno scambio di cretini?”. Non molti anni dopo sarà invece proprio Melloni a consegnarsi, aderendo al Pci e divenendo un implacabile fustigatore dei suoi ex compagni di partito, nei suoi corsivi sull’Unità, con lo pseudonimo di Fortebraccio. L’attuale viceministro all’Economia Enrico Morando ha ricordato in un libro – “Riformisti e comunisti?” (Donzelli) – un comitato centrale del Pci in cui Pajetta, accusando di disonestà intellettuale Armando Cossutta, gli aveva detto: “Non c’è tra noi nessun pazzo che proponga l’ingresso del Pci nell’Internazionale socialista”. E quando poco dopo l’assemblea aveva preso in esame un testo proposto dallo stesso Morando, che chiedeva in sostanza proprio quello, dal fondo della sala si era levata subito, stentorea, la voce di Pajetta: “Mi correggo, il pazzo c’è”. Inutile chiedersi cosa direbbe oggi del Pd, da poco entrato a pieno titolo nel Pse. Certo è che se non ci fossero stati uomini come Giancarlo Pajetta non ci sarebbe oggi nessun Partito democratico, non foss’altro perché è anche a uomini come lui che dobbiamo la democrazia.
(l’Unità, 12 settembre 2015)