La strategia dei girotondi
L’accordo sul merito della riforma costituzionale, nel Partito democratico, è stato raggiunto da nemmeno due settimane, il parlamento non ha ancora finito di votarne il testo, ed ecco che Pier Luigi Bersani riapre la polemica su ruolo e motivazioni di quel Denis Verdini che proprio l’intesa appena siglata avrebbe dovuto rendere irrilevante, a detta della stessa minoranza del Pd. «Verdini oggi sta rosicando», aveva commentato a caldo Miguel Gotor. Possibile che basti una canzoncina irridente come quella accennata in televisione dall’ex braccio destro di Silvio Berlusconi, senza che nel frattempo sia cambiato alcunché, per rovesciare tanto clamorosamente le parti tra chi risica e chi rosica? Evidentemente no.
La ragione di questo scarto improvviso, da parte della minoranza del Pd, non sembra dunque né umorale né tattica. Del resto, lo stesso atto d’accusa pubblicato da Bersani sulla sua pagina Facebook non fa riferimento ad alcuna concreta novità legislativa o politica, che non c’è stata, confermando piuttosto l’impressione di una mossa compiuta a mente fredda, con l’intenzione di rilanciare una sorta di questione morale del tutto indipendente dal merito della riforma.
Non sarebbe una novità, purtroppo. Già ai tempi di un altro sfortunato tentativo di revisione della Costituzione, alla fine degli anni novanta, si saldò contro Massimo D’Alema, allora segretario del principale partito della sinistra e presidente della commissione bicamerale per le riforme, un fronte molto ampio, politico, intellettuale e editoriale. Tuttavia, come spesso capita in questi casi, la vera battaglia interna si aprì soltanto quando la guerra era ormai perduta, con Berlusconi già tornato saldamente al governo, ed ebbe carattere recriminatorio. E per una parte della minoranza interna dei Ds ebbe anche il carattere di una rivincita dopo il congresso di Pesaro, in cui nonostante tutto i riformisti guidati da Piero Fassino erano riusciti a prevalere, con l’appoggio dello stesso D’Alema. La bicamerale divenne allora, retrospettivamente, il cuore di quelle campagne di delegittimazione, da cui nacquero un’infinità di appelli, manifestazioni e movimenti, a cominciare dai girotondi, accomunati dall’idea che con Berlusconi non si potesse trattare per nessuna ragione, e farlo non potesse non comportare uno scambio inconfessabile, che si sarebbe risolto, da parte della sinistra, in un tradimento dei propri principi e della propria identità.
«Sembra che valori, ideali e programmi di centrosinistra si sviliscano in trasformismi, giochi di potere e canzoncine», scrive ora Bersani su Facebook. Non usa il termine «inciucio», non grida «Renzi di’ qualcosa di sinistra» come Nanni Moretti, ma è difficile non leggere nelle sue parole la scelta di spostare il terreno del confronto interno dal merito dei provvedimenti, terreno naturale del compromesso, al piano morale, dove il compromesso non è possibile. Con il rischio, forse non pienamente calcolato, di scivolare in un attimo dalla tribuna dell’accusatore al banco dell’accusato: se infatti dietro la riforma si nascondessero davvero manovre capaci di mettere a rischio addirittura «valori» e «ideali» della sinistra, come giustificare il voto a favore del testo e lo stesso appoggio a un governo capace di simili mercanteggiamenti?
Il gioco della delegittimazione reciproca non prevede vincitori. Lo dimostra proprio la parabola della sinistra tra la fine degli anni novanta e l’inizio dei duemila: D’Alema porta ancora i segni di quelle campagne di demonizzazione e da allora non si è più liberato dal sospetto di intelligenza con il nemico, ma non si può dire che sia andata meglio ai suoi contestatori dell’epoca, quella minoranza di sinistra che Peppino Caldarola ribattezzò «peggiorista» e della quale, dopo un imprecisato numero di scissioni e riaggregazioni, si sono ormai perse le tracce.
(l’Unità, 7 ottobre 2015)