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“Due modelli di integrazione falliti”

19/11/2015

unita«La minaccia islamista tenta di riportarci a quello scenario descritto da Montaigne riguardo all’Europa delle guerre di religione, quando improvvisamente il cattolico si domandava se il vicino di casa protestante si sarebbe rivelato un nemico, e viceversa». Comincia da qui la riflessione di Giacomo Marramao, filosofo della politica che sui temi dei conflitti identitari e religiosi al tempo della globalizzazione si interroga da anni. E che già nel 2003, nel suo saggio Passaggio a Occidente (Bollati e Boringhieri), aveva parlato della necessità di una «politica universalista della differenza». Ma andiamo con ordine.
Professor Marramao, come si fronteggia una simile sindrome del “nemico in casa”?
«Se è vero che sempre più spesso gli autori degli attentati si rivelano essere cittadini francesi, inglesi e domani magari italiani, cittadini che appartengono in genere alla seconda o anche alla terza generazione di famiglie di immigrati, evidentemente dobbiamo domandarci cosa non ha funzionato nel nostro modo di inserire queste nuove generazioni nella sfera della cittadinanza. Io penso da tempo che dobbiamo fare i conti con il fallimento dei due principali modelli di integrazione che abbiamo conosciuto nella modernità: il modello assimilazionista repubblicano, che è il modello francese, e quello che chiamo il modello Londonistan, che caratterizza soprattutto il Regno Unito».
Cosa non funziona nel modello francese?
«Intendiamoci, è un grande modello di integrazione: abbiamo visto anche in questi giorni come la Francia anche nei momenti più difficili ritrovi la passione dell’unità cantando la marsigliese. È un modello che ammiro immensamente, ma è il modello di una sfera pubblica della cittadinanza indifferenziata. Lo abbiamo visto con la polemica sul velo. Ricordo che ero a Parigi quando ci furono le rivolte nelle banlieue e ho parlato con giovani magrebini di terza generazione, giovani che parlavano un francese perfetto e conoscevano poco o niente di arabo. Mi dicevano: non ci ribelliamo per un posto di lavoro o per il salario, ma per la qualità del luogo. La banlieue è tornata al suo etimo: “lieu banal”. Loro poi dicevano anche di peggio, ma insomma, il punto è che sempre di più nel ventunesimo secolo i conflitti si spostano dai luoghi della produzione agli spazi di vita, e la lotta diventa una battaglia per la qualità dei luoghi. Il che implica anche la possibilità di vivere una sfera pubblica in cui ci si forma in un certo modo, non si vive il tormento e la frustrazione della segregazione, dello stare in un luogo banale, appunto, cioè privo di qualità».
Questo per il modello francese. E per quanto riguarda l’altro modello?
«L’altro è il modello britannico, quel multiculturalismo che io chiamo dei ghetti contigui. Tanti ghetti uno accanto all’altro, che non comunicano tra loro. Ogni gruppo si autorappresenta nella propria differenza. Giustamente Amartya Sen lo ha definito non un multiculturalismo, bensì un “monoculturalismo plurale”, perché in effetti dentro il proprio spazio ciascun gruppo si chiude in una logica strettamente monoculturale».
Dunque, come se ne esce?
«Riscoprendo quello che io chiamo un universalismo della differenza. Non più l’identità che assimila a un modello di universalismo precostituito, ma un universalismo che si alimenta attraverso l’apporto delle differenze. E non è un’utopia, è un modello che abbiamo già conosciuto».
Quando?
«È il modello della civitas romana, uno spazio politico e giuridico in grado di accogliere in sé una pluralità di nationes di gentes, accoglierle come differenti nella concretezza della loro storia, per l’apporto specifico che possono dare. Ma, ed è un “ma” che non si sottolineerà mai abbastanza, a condizione del rigoroso rispetto delle leggi di Roma. Qui abbiamo dunque l’istanza dell’universalità, la legge di Roma valida erga omnes, e anche le differenze. L’universalismo romano infatti non è di tipo etnico eslcusivista, non è come il demos greco, che è fondato sul mito dell’autoctonia. Non è neanche l’idea del popolo dello stato-nazione. I non-romani o non-italici non erano semplicemente tollerati, potevano fare tutto il cursus honorum, fino a diventare imperatori».
D’accordo, ma se il modello è questo, chi fa la parte di Roma?
«Secondo me possiamo considerare l’Europa lo spazio culturale più adeguato a recepire questo modello. Le faccio un esempio banale: mentre facevo zapping in tv, mi sono imbattuto in una serie poliziesca tedesca dove c’erano il poliziotto buono, aperto e democratico, e quello un po’ razzista. Il buono diceva all’altro: noi dobbiamo modellare sempre di più la nostra democrazia sul concetto di cittadinanza dell’impero romano, accogliere genti di tutte le culture e tutte le etnie. Capisce? Speriamo che oltre ai personaggi delle serie tv lo pensino anche i politici europei».

(l’Unità, 18 novembre 2015)

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