Alle origini di una crisi infinita
Sono pochi i politici che in Italia sarebbero capaci di scrivere un libro sulle radici economico-finanziarie, politico-giuridiche e persino filosofico-antropologiche dell’attuale crisi del capitalismo (o di un certo tipo di capitalismo). Meno ancora gli studiosi capaci di farlo senza perdere, lungo la strada degli infiniti tecnicismi, il senso politico e civile di un simile tentativo. Nel suo nuovo saggio, Il soggetto dell’economia (Ediesse), Laura Pennacchi riesce a farlo con un’ampiezza di respiro pari solo al rigore, e alla radicalità, dell’analisi. E non è solo la naturale radicalità degli studiosi, abituati a portare ogni ipotesi fino alle sue estreme conseguenze logiche. L’autrice sa bene cosa significa passare dalla teoria alla pratica, essendo stata autorevole esponente del primo governo Prodi. Un esecutivo giustamente legato, nella memoria di ogni elettore di centrosinistra, a un doppio successo: la vittoria elettorale e l’ingresso nell’euro. Se però applicassimo a quel governo, alle sue finanziarie, alle sue riforme del mercato del lavoro e alle sue stesse dichiarazioni di principio le chiavi di lettura con cui Pennacchi giudica governi di destra e di sinistra che si sono succeduti nell’occidente capitalista dagli anni 80 a oggi, difficilmente si salverebbe (il lettore può verificarlo da sé: in rete è facilmente rintracciabile il Dpef del ’97).
È indiscutibile che quel governo si dovette confrontare con una pesante eredità e con tremendi vincoli, se non proprio accordi-capestro, che resero tante scelte (la privatizzazione di Telecom, per dirne una) quasi obbligate. Il punto, però, è che simili giustificazioni potrebbero legittimamente invocarle anche altri governi europei e occidentali, pure di sinistra, implicitamente liquidati come pedissequi esecutori dell’ideologia neoliberista. Il rischio è insomma quello del doppio standard, una sorta di strabismo della memoria che sarebbe però ingeneroso rimproverare proprio a Pennacchi, con tutti i leader di centrosinistra che hanno santificato il rigore ben prima del Fiscal Compact, introiettando l’interpretazione più rigida – perfino etica! – del vincolo esterno europeo, salvo riscoprirsi rivoluzionari negli ultimi tempi. Ne ricordiamo tanti vantare come uno dei massimi risultati degli esecutivi Prodi-D’Alema-Amato l’enorme «avanzo primario» lasciato in eredità ai governi di centrodestra, e da questi subito sperperato. Non sarebbe stato meglio spenderne una piccola parte prima, per fare solo un millesimo di quella rivoluzione economica e culturale che oggi tanti di loro mostrano di considerare il cuore stesso dell’identità di una forza di sinistra?
(l’Unità, 23 novembre 2015)