Canale Mussolini, tra Marquez e Pascarella
Cos’altro potrà scrivere chi abbia già solennemente dichiarato, cominciando un romanzo, che «bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mondo», che ogni altra cosa fatta prima era solo «preludio o interludio a questa», compresi gli altri libri scritti e persino buona parte dei libri letti fino a quel momento, come Antonio Pennacchi ha dichiarato sin dalla primissima pagina di Canale Mussolini?
Ma è ovvio: Canale Mussolini, parte seconda. Perché, se è vero che i grandi pensatori pensano per tutta la vita un unico concetto, non c’è dubbio che la saga familiare dei Peruzzi rappresenti Antonio Pennacchi molto di più e molto meglio di quanto il suo autore rappresenti se stesso. E questo lo capisce chiunque abbia avuto occasione di conoscerlo, ma in particolare chi, tra i suoi lettori, conservi memoria del giorno in cui, per ricucire con gli intellettuali riflessivi e arrabbiati che si erano raccolti attorno a Nanni Moretti, l’allora segretario dei Ds Piero Fassino riunì a Roma, nella sala dello Stenditoio, la crema della crema della cultura progressista. Una crema che montò sul palco di quella augusta sala per un pomeriggio intero, in autocompiaciuta celebrazione del proprio potere di legittimazione politica e morale, ma solo finché al microfono non arrivò questo non più giovanissimo eppure ancora abbastanza oscuro scrittore, che inflisse agli attoniti astanti un’interminabile reprimenda di purissima scuola togliattiana, con annessa lezione sul rapporto tra intellettuali e popolo, lotta di classe e difesa delle istituzioni, conclusa da uno stentoreo «mavvattelaapijander…» all’indirizzo del più autorevole tra i filosofi in sala. Quale che sia la dose di autobiografismo dei suoi libri, siamo certi, pertanto, che a nessun militante della sinistra che sia stato lì allora, e abbia poi letto il romanzo, si potrà mai togliere dalla testa di avere assistito in quel momento, senza saperlo, a una delle più fantastiche manifestazioni della celebre furia di Pericle Peruzzi, protagonista di Canale Mussolini (parte prima), il libro della vita di Antonio Pennacchi.
Tra quel primo libro (premio Strega nel 2010) e questa seconda parte ci sono dunque tutte le differenze che passano tra il libro della vita, quello in cui uno scrittore mette davvero tutto ciò che ha letto e scritto e studiato da quando è nato, da prima ancora di sapere perché lo fa, e un libro scritto dopo, una volta che quel compito, quella missione, sente di averla in qualche modo portata a termine. Intendiamoci, il meccanismo funziona sempre, con quello strano impasto di Gabriel García Márquez e Cesare Pascarella, epopea familiare intrisa di realismo magico e grande storia nazionale mediata dal punto di vista del popolano che la racconta all’osteria (qui un veneto-pontino che lo fa in una stalla) e raccontandola la traduce istintivamente nella sua lingua, cioè nel dialetto, cioè nella sua visione del mondo. Un gioco che forse nella seconda parte mostra qualche smagliatura qui e là, qualche invenzione meno felice, qualche imprecisione in più che si sarebbe tentati di non attribuire al protagonista che racconta, ma allo scrittore che per questa seconda parte, evidentemente, non disponeva di una seconda vita da dedicare all’interminabile opera di preparazione, raccolta, impasto e lavorazione del suo materiale. Ma si tratta del pelo nell’uovo. E se è vero che è solo dal secondo elemento che si può dire nasca una serie, una storia, una tradizione, allora bisogna dire che con Canale Mussolini, parte seconda è nata una grande epopea, che promette di proseguire a lungo e di cui speriamo di poter riprendere la lettura il più presto possibile. Un’epopea in cui Pennacchi, fedele all’ispirazione di quella lontana sfuriata anti-intellettualistica, si propone come il cantore di una storia nazionale capace di riscoprire e difendere la tradizione delle grandi culture politiche che hanno fatto la Costituzione, e prima ancora dei partiti di massa che, fatta l’Italia da parte dell’élite risorgimentale, si sono assunti il compito di fare gli italiani. Una posizione che rappresenta oggi il massimo dell’anticonformismo, di cui a Pennacchi va dato atto, in un paese così povero di intellettuali autenticamente popolari e democratici (essendo quasi tutti, al contrario, elitari e sovversivi).
In questo senso, cioè come difensore di una storia del popolo italiano, e non semplicemente dei suoi gruppi dirigenti, si può capire anche il suo dirsi provocatoriamente fasciocomunista. Di qui anche il suo rifiuto di ogni manicheismo, ogni falso moralismo, ogni lettura di comodo, si tratti della storia del fascismo negli anni trenta o di quella del centrosinistra negli anni novanta. Un intreccio di ironia e carità cristiana che dà anche a questa seconda parte il passo del grande romanzo storico, dove si mescolano le ragioni e i torti della politica, della storia e soprattutto della vita: le battaglie che puoi vincere o perdere, l’importante è combatterle, e quelle che, c’è poco da fare, non vincerai mai. Come nel caso del maresciallo dei carabinieri Luigi Zaccheo, detto “Fiorello”, a capo insieme al fratello Candido di una gloriosa banda partigiana attiva nella provincia di Latina, medaglia di bronzo al valor militare, ricevuta con la seguente motivazione: «Coraggioso patriota… Catturato dal nemico sulle prime linee di fuoco, eludendo la rigorosa sorveglianza riusciva a fuggire per riprendere con maggiore ardore la sua pericolosa attività. In audaci azioni di guerriglia… eliminava tre elementi nemici e ne catturava altri rivelando, in ogni circostanza, eccezionali doti di animatore ed elevato spirito combattivo». Fine della citazione. Riprende la voce narrante: «I figli però – poi dice i figli – i figli gli verranno tutti fasci». E anche questa è la storia d’Italia.
(l’Unità, 18 gennaio 2016)