L’ipocrisia al potere, prima di Trump
Quando tre anni fa andò in onda negli Stati Uniti la prima stagione di House of Cards, nemmeno ai suoi fan più accaniti sarebbe potuto venire in mente di definirla una rappresentazione realistica della politica americana. Il mondo di Frank Underwood, mefistofelico uomo forte del partito democratico, capace di ogni nefandezza, di ogni inganno e persino di ogni crimine pur di conquistare e mantenere il potere, era quanto di più lontano fosse possibile immaginare dall’autorappresentazione dell’America di Barack Obama, il primo presidente nero, l’intellettuale premio Nobel per la pace, il politico idealista del discorso del Cairo, allora appena all’inizio del suo secondo mandato.
Oggi, all’inizio della quarta stagione di House of Cards, sappiamo che Frank Underwood sta correndo alle primarie democratiche, proprio mentre alle primarie del partito repubblicano il candidato considerato favorito si chiama Donald Trump: bisogna fermarcisi a ragionare un momento, prima di dire con certezza quale delle due affermazioni si riferisce alla finzione televisiva e quale alla cronaca politica, dove sia la rappresentazione grottesca di un mondo da incubo, e dove il mondo reale. A dirlo, del resto, è la stessa coprotagonista della serie, Robin Wright: «Con l’arrivo di Trump sulla scena è chiaro che la realtà ha già abbondantemente superato la fantasia».
Certo il mondo politico americano è cambiato parecchio, dai tempi in cui al centro del palcoscenico c’era il giovane avvocato nero che diceva «Yes we can» ai giorni in cui la scena è perennemente occupata dal biondiccio settantenne che non esita a utilizzare un linguaggio spudoratamente razzista con le minoranze, violentemente maschilista con le donne, platealmente derisorio verso i disabili.
A pensarci bene, però, qui una differenza significativa con il mondo della politica di House of Cards c’è. Ed è che tutto il cinismo, la brutalità e il disprezzo per gli altri di cui è fatta la sua corsa al potere, il democratico Underwood li nasconde, non li esibisce. All’esterno, Underwood è il re del politicamente corretto. Praticamente un damerino. Vuole il potere per il potere, il potere come status symbol, il potere come segno della propria affermazione personale e nient’altro, e per questo è pronto a tutto, e prima di tutto a dissimulare le sue motivazioni e le sue convinzioni. Underwood, insomma, non si sarebbe mai vantato di avere finanziato in passato democratici e repubblicani pur di ottenere quel che gli serviva, come ha fatto serenamente Trump, pubblicando le sue foto con i Clinton.
Tuttavia anche il miliardario rivelazione di queste primarie repubblicane ha qualcosa da nascondere, a quanto pare. Da giorni, infatti, i suoi avversari lo incalzano perché renda pubbliche le trascrizioni di un incontro, in larga parte “a microfoni spenti” (si fa per dire), con la redazione del New York Times. Incontro in cui, secondo indiscrezioni circolate sulla rete, avrebbe detto di sapere benissimo che sparate come quella del muro al confine con il Messico, o la deportazione di undici milioni di immigrati senza documenti, siano del tutto irrealizzabili. Cose che si dicono in campagna elettorale, insomma, cui lui sarebbe il primo a non credere. E questa forse è la differenza principale con le menzogne di Underwood, e con l’America di ieri: che lì il politico pronto a tutto pur di ottenere il consenso degli elettori non esitava a mentire per nascondere le proprie malefatte, le proprie piccole miserie, la propria inadeguatezza intellettuale o morale.
Qui mente per ingigantirle.
(L’Unità, 4 marzo 2016)