Cosa resta di Marx
Il ritorno di Marx ormai non è più una notizia. Per rivalutarlo, per ricriticarlo o per dissuadere chi vorrebbe rimetterlo sul piedistallo, Marx è tornato da tempo sulla scena del dibattito pubblico. La si può considerare una fortuna o una sciagura, ma non si può dubitare del fatto che la crisi economica mondiale, se non altro, ha sottratto le sue opere a quella famosa “critica corrosiva dei topi” cui dopo l’ottantanove sembravano irrimediabilmente destinate. Quanto un simile ritorno di fiamma sia destinato a durare, naturalmente, è presto per dire. Questi processi hanno tempi lunghi. Oggi è praticamente impossibile trovare un salotto in cui sia tenuta ancora in bella vista quell’interminabile e minacciosissima sfilza di volumoni bianchi e neri con le opere complete di Marx ed Engels, che un tempo costituivano l’indispensabile complemento d’arredo di ogni appartamento progressista. Torneranno di moda anche quelli? Chissà.
Intanto, però, per Carocci è appena uscita, in tre volumi, nientemeno che una storia del marxismo nuova di zecca. Intendiamoci: niente di paragonabile, almeno per mole, alla mastodontica raccolta delle opere complete di cui si diceva, né all’imponente storia del marxismo pubblicata da Einaudi tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta (in limine mortis, potremmo dire). Qui si tratta di tre agili volumetti da duecento pagine l’uno, formato tascabile, edizione economica. Cionondimeno, la notizia appare degna di nota. E non è l’unica novità in questo senso.
Prima di tutto, però, bisogna capire bene chi è – o cos’è – che sta tornando. Marx è stato infatti al tempo stesso un filosofo, un economista e un politico. Un combattente e uno studioso, un giornalista e uno scrittore. È stato un leader rivoluzionario e un organizzatore infaticabile, e un non meno infaticabile topo di biblioteca. Per gli economisti di tutti gli orientamenti Marx è stato innanzi tutto un economista capace di «intuizioni stellari» (come disse un celebre economista non marxista). Per molti di coloro che in questi ultimi anni sono tornati a tesserne le lodi è stato anzitutto lo studioso capace di mettere a fuoco l’instabilità del capitalismo e l’inevitabilità delle crisi, che il grande crack del 2008 avrebbe dunque vendicato da decenni di calunnie. Per il filosofo (marxista) Giuseppe Vacca – autore di un libro in uscita in questi giorni dedicato proprio a questo tema: Quel che resta di Marx (Salerno editrice) – se oggi vale la pena rileggerlo, al contrario, non è «per cercarvi chiavi di lettura delle crisi economiche, quanto piuttosto per rinverdirne la lezione più proficua, riguardante la politica e la storia». E questo perché, tanto per essere chiari, a giudizio del presidente dell’Istituto Gramsci «Marx non fu un economista, ma un pensatore non classificabile fra le discipline morali moderne perché dedicò le sue energie intellettuali a elaborare un pensiero che potesse orientare l’azione di determinati “movimenti collettivi”».
In altre parole, il primo e forse il principale problema che si trova a dover affrontare chiunque voglia tornare a discutere di Marx, e tanto più di marxismo, è che deve preliminarmente mettersi d’accordo con i suoi interlocutori su cosa Marx, o il marxismo, sia (e questo senza dubbio depone a favore della tesi che si trattasse di un filosofo). Resta comunque da capire perché poi bisognerebbe sobbarcarsi una simile faticaccia. «Chiunque abbia l’ambizione di influenzare i processi storici – scrive Vacca – può disporre dell’immenso accumulo delle scienze moderne, ma per districarsi nella loro ingens sylva non dovrebbe privarsi della bussola costruita da Marx». Una bussola dunque ancora perfettamente funzionante, a condizione che sia chiaro qual è il Nord.
Per chi non condividesse la visione storicistica del presidente dell’Istituto Gramsci, non per niente incentrata sui canoni della lezione gramsciana-togliattiana, la storia del marxismo pubblicata da Carocci, a cura di Stefano Petrucciani, offre un punto di vista piuttosto diverso, per non dire diametralmente opposto. Qui infatti l’attenzione e verrebbe da dire anche il cuore delle interpretazioni, almeno nella maggior parte dei contributi, appare prevalentemente indirizzata a quelle correnti che un tempo si chiamavano eretiche, in contrasto con il cosiddetto marxismo ufficiale professato dai partiti comunisti e contestato da movimenti e intellettuali radicali.
Passando dal testo del Manifesto di Marx ampiamente citato e glossato da Vacca alle varie forme di “pensiero critico”, operaismi, scuole di Francoforte, strutturalismi e post-strutturalismi della storia curata da Petrucciani, un sospetto si affaccia dunque nella testa del lettore appassionato, fosse anche il più ardente rivoluzionario, ma non filosofo di professione. Ed è che il testo ottocentesco di Marx, nel Manifesto e persino nel Capitale, possa essere spesso arduo, ma solo quando arduo è effettivamente il concetto, la cosa, che l’autore si sforza comunque e sempre di esporre nel modo più chiaro possibile. E tale risulta infatti ancora oggi, a quasi duecento anni di distanza. Ben diverso è l’effetto che fa un certo filosofare tipico in particolare dell’estrema sinistra degli anni settanta del novecento. Già oggi, meno di cinquant’anni dopo, quel gergo, quelle circonlocuzioni, quei bizantinismi appaiono irrimediabilmente datati, per non dire polverosi. L’impressione è che sia insomma il marxismo eretico, per usare un’altra celebre immagine marxiana, il vero «cane morto». E sepolto.
Una possibile via di mezzo tra le due strade che abbiamo cercato qui di delineare sommariamente si può però rintracciare nel saggio con cui Roberto Finelli apre un altro libro da poco uscito per Carocci, La crisi del soggetto – Marxismo e filosofia negli anni Settanta e Ottanta, a cura ancora di Giuseppe Vacca. Secondo Finelli il problema è che «la cultura del comunismo della prima metà del Novecento, per diverse ragioni, non s’è incontrata con la cultura del desiderio e del riconoscimento del Sé della seconda metà del Novecento». La nostra impressione, anche pensando al diverso rilievo che hanno oggi a sinistra la questione dei diritti e delle libertà individuali da un lato, dall’altro le più tradizionali questioni economiche e sociali, è che l’incontro non ci sia stato semplicemente perché una delle due culture, quella che avrebbe dovuto essere rappresentata dagli eredi del Pci gramsciano-togliattiano, ha semplicemente abbandonato il campo.
(l’Unità, 12 marzo 2016)