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Gli anni di piombo, senza alibi

14/04/2016

unitaPoche stagioni della storia recente sono state più intensamente e lungamente dibattute dei cosiddetti anni di piombo. Punto di riferimento obbligato di qualunque dibattito su politica e violenza, costantemente al centro di libri, film, articoli di giornale e talk show, la discussione su quella stagione e sulle sue contraddizioni non si è, in pratica, mai fermata. E così, nel corso degli anni, all’esito delle inchieste giudiziarie, spesso controverso e quasi sempre tardivo, si è venuta intrecciando una spessissima coltre di polemiche e ricostruzioni parallele, non di rado fantasiose, che ha finito per costituire un vero e proprio genere letterario, cinematografico, teatrale e musicale: quello dell’opera di denuncia che svelerebbe i veri moventi, i veri mandanti, i veri e ovviamente inconfessabili interessi celati dietro le verità ufficiali.
Alla diversità e spesso all’assurdità di ciascuna di queste clamorose rivelazioni fa riscontro, curiosamente, una sostanziale uniformità nell’interpretazione di fondo. L’idea cioè che i veri colpevoli, o comunque i principali responsabili di tanti lutti, non fossero i terroristi, ma lo stato, i partiti in generale oppure questo o quel partito, questo o quel politico in particolare, oppure ancora i servizi segreti, la P2, Usa e Urss. Tutti, insomma, tranne coloro che materialmente spararono, misero le bombe o fecero parte di organizzazioni che teorizzavano e praticavano la violenza. Costoro, nella peggiore delle ipotesi, sarebbero stati complici, strumenti, più o meno inconsapevoli marionette nelle mani di tali burattinai. Nell’ipotesi migliore – per loro, s’intende – giovani idealisti, magari un po’ sprovveduti, al limite un filino irresponsabili, ma pieni di nobili intenzioni, trascinati sul terreno della violenza da una violenza ben peggiore. Quella, ovviamente, di una qualsiasi tra le entità di cui sopra: stato, servizi, potenze straniere, eccetera.
Il principale merito del nuovo libro di Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica (Rizzoli), sta senza dubbio nella nettezza con cui si contrappone a questa vulgata.
Il libro è infatti, prima di tutto, una minuziosissima ricostruzione e una puntualissima contestazione della maggior parte delle più diffuse teorie del complotto sorte negli anni attorno alle malefatte del terrorismo nero e rosso. Costante e degno di lode è il riconoscimento, da parte dell’autore, della parzialità delle nostre conoscenze. Ciò non toglie che nella sua meritoria battaglia contro ogni dietrologia dia a volte la sensazione di cadere nell’eccesso opposto. Del resto, nelle polemiche su quegli anni, esiste anche un piccolo filone anti-dietrologico che si rivela spesso non meno ideologico e prevenuto dei suoi avversari. Se infatti è vero che il complottista finisce spesso per accettare tutto, anche la tesi più inverosimile, pur di sfuggire al realistico riconoscimento della parzialità strutturale delle nostre conoscenze, è anche vero che le nostre conoscenze sono tanto parziali e imperfette da non permetterci di escludere nemmeno che qualche volta, con una probabilità prossima ma pur sempre superiore allo zero, abbia persino ragione lui. La storia degli anni di piombo non è solo la storia di una gran quantità di bufale spacciate per verità inconfessabili. È anche la storia di un discreto numero di verità inconfessabili che spesso, anche così, in mezzo a una gran quantità di immaginose fesserie, sono venute alla luce.
Criticare l’assenza di riscontri o la palese assurdità di tante ricostruzioni non può significare negare l’evidenza – e Satta infatti se ne guarda bene – e cioè che trame eversive, insabbiamenti e depistaggi, nell’Italia di quegli anni, ci furono eccome. Così come, nel mondo di allora, c’erano la guerra fredda e i colpi di stato (non solo in sudamerica). Quello che non è accettabile, invece, è che tutto questo finisca per costituire una giustificazione per coloro che materialmente misero le bombe e spararono. Così come del tutto infondata è l’idea, pure molto diffusa, che il terrorismo sia stato in qualche modo figlio del disagio o dell’ingiustizia sociale, o che sarebbe nato come reazione alla violenza dello stato, in risposta alla «repressione», come dicevano allora tanti pessimi intellettuali. Gli italiani, ricorda giustamente Satta, non avevano mai goduto di maggiore benessere, né di maggiori libertà politiche e civili.
Da questo punto di vista, I nemici della Repubblica contiene due affermazioni particolarmente importanti. La prima è che mentre le vicende di tutti i gruppi e gruppetti che scelsero il terreno della violenza sono state analizzate e discusse fin nei minimi dettagli, molto meno e con molto minore accuratezza sono stati studiati gli apparati che li contrastarono, se non per cercarvi la conferma di teorie cospirative precostituite. La seconda osservazione è che, con tutti i suoi limiti e i suoi errori, le sue zone d’ombra e le sue responsabilità, lo Stato italiano «ha sconfitto i suoi nemici dando una prova di efficienza non disprezzabile». Come dimostra anche il fatto che la stragrande maggioranza degli osservatori stranieri non condivide «il giudizio profondamente negativo sull’operato dello stato italiano nei cosiddetti anni di piombo» e tende anzi a darne una valutazione positiva, che dunque «appare stravagante rispetto ai luoghi comuni del dibattito di casa nostra».
Se però Satta ha ragione, resta da capire come mai la limpidezza di quella vittoria delle istituzioni appaia ancora oggi tanto discussa e discutibile. Resta cioè da capire come mai, in apparenza, la storia sia stata scritta dai vinti. Non siamo sicuri che bastino, come risposta, la diffusa inclinazione alle spiegazioni dietrologiche, l’eredità ideologica e persino cognitiva della guerra fredda, l’antica tradizione antistatale degli italiani. Qui, forse, un pizzico di dietrologia in più non guasterebbe. Anche perché abbiamo l’impressione che in questa strana distorsione della nostra memoria collettiva si nascondano problemi ancora attuali. Ad esempio, il circolo vizioso che può instaurarsi quando al cattivo giornalismo d’inchiesta e alla cattiva propaganda si aggiunge la tendenza di alcuni pubblici ministeri a procedere per teoremi storico-politici tutti da dimostrare (e perlopiù indimostrabili), dove gli uni e gli altri finiscono per legittimarsi reciprocamente, alimentando la catena delle speculazioni fino all’inverosimile (la contestazione di simili cortocircuiti è tra le parti più convincenti del libro).
Come spiegare dunque la persistente fortuna di qualunque teoria del complotto, anche la più strampalata, specialmente quando finisca per rovesciare le parti tra vittime e carnefici, tra chi sceglieva la strada della violenza per rovesciare la democrazia e chi la difendeva? Dietrologicamente, saremmo tentati di rispondere che si spiega proprio con il fatto che simili ricostruzioni hanno il vantaggio di assolvere non solo i terroristi, ma anche tutti coloro che parteciparono, approvarono o comunque costeggiarono la violenza estremista. E oggi, spesso, sono non meno perentori nello scagliarsi contro la «casta» della politica (espressione, come ha notato nei suoi libri Miguel Gotor, molto utilizzata già allora, nella propaganda eversiva).

(L’Unità, 13 aprile 2016)

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