Moro, cent’anni di prigionia
Il centenario dalla nascita di Aldo Moro, forse il principale rappresentante della cultura della mediazione e del primato della politica nella storia repubblicana, non poteva cadere in un momento migliore, cioè peggiore: almeno per la considerazione di cui sembrano godere, nell’Italia di oggi, la storia della Repubblica, la politica e i partiti, ma soprattutto qualsiasi idea di mediazione. È del resto opinione diffusa che la crisi del sistema definitivamente esplosa nel 1992 sia cominciata, in realtà, proprio con la sua tragica morte. Il problema, storico e politico, è che dalle terribili circostanze della sua scomparsa, con tutti i misteri e le dietrologie che continuano a circondare la sua prigionia, Aldo Moro non è mai stato liberato. La sua figura di statista, la sua opera come uomo di governo e come intellettuale, la sua visione dello sviluppo della democrazia italiana e dell’impegno dei cattolici, la sua concezione del rapporto tra Stato e società, della funzione insostituibile dei partiti, del rapporto con i movimenti: tutto questo è divenuto poco più della nota a margine nel racconto della sua prigionia e del suo assassinio. E il peggio è che questo racconto ha finito per ripetere e confermare la versione della propaganda brigatista, accreditando l’immagine – rilanciata da mille libri, articoli, film più e meno recenti – di un Moro vittima dello Stato e dei partiti più che degli stessi terroristi.
A restituire a Moro il posto che gli spetta nella storia d’Italia, e alla sua fine il posto non esclusivo né preponderante che merita all’interno della sua biografia, è oggi un saggio di Guido Formigoni (Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma – il Mulino), che traccia un ampio e documentato profilo dello statista pugliese, della sua formazione e del suo percorso intellettuale, del suo ruolo unico nella Democrazia cristiana e nelle istituzioni, dalle sue prime decisive esperienze politiche alla Costituente fino alla morte nel «carcere del popolo» delle Br. Un percorso che rende anzitutto giustizia alla coerenza e alla visione di un uomo politico che come pochi mantenne e perseguì per tutta la vita un’unica strategia, un grande disegno di allargamento delle basi della democrazia italiana, guidando prima l’apertura ai socialisti e poi il dialogo con il Pci. Tutto il contrario dell’immagine del cinico conservatore interessato soltanto al potere per il potere, capace di annegare qualsiasi impulso rinnovatore nella rete delle sue manovre politiche e delle sue circonvoluzioni retoriche. Immagine peraltro perfettamente speculare alla successiva vulgata di un Moro vittima innocente e martire inconsapevole di quello stesso sistema (di cui fino a un momento prima era considerato il massimo artefice).
Da un certo punto di vista, si potrebbe dire che la memoria di Moro abbia avuto una sorte simile a quella di Enrico Berlinguer. Anche nel caso del segretario del Pci si è infatti assistito, con il passare degli anni, alla sostanziale rimozione della strategia che aveva perseguito per buona parte della sua segreteria – il compromesso storico – e alla deformante enfatizzazione delle parole d’ordine dell’ultima fase, quando quella strategia era stata sconfitta, a cominciare dalla questione morale. Fino all’esito grottesco di fare del segretario del Partito comunista italiano una sorta di padre nobile delle campagne contro i partiti, e magari anche della separazione tra politica ed economia. Con l’aggravante, nel caso di Moro, che le sue ultime parole, le sue durissime accuse e le sue ultime invettive, non sono state pronunciate da uomo libero, ma sono state il frutto di una lotta disperata e oscura – di cui purtroppo mai potremo conoscere i veri confini – con i suoi spietati carcerieri. Una condizione che impedisce di screditarle in blocco come frutto di coercizione, ma che ricostruzioni puntuali – a cominciare da quelle di Miguel Gotor – hanno già dimostrato quanto fossero condizionate dal sadico gioco di equivoci e sospetti alimentato ad arte dagli aguzzini di Moro. Ad esempio facendogli credere che fosse stato il governo a rendere pubblica la lettera in cui indicava possibili strade per una trattativa riservata, lettera che invece erano stati proprio i brigatisti a diffondere, irridendo i suoi disperati tentativi come «manovre occulte» tipiche della «mafia democristiana». A riprova di come l’immagine dei suoi rapitori appesi al televisore in disperata attesa della più piccola apertura da parte dello Stato, e alla fine quasi costretti a uccidere Moro dalla perversa ostinazione dei partiti nel rifiutare ogni trattativa, è appunto solo un’immagine di comodo, la cui persistente fortuna deve continuare a interrogarci. Anche qui si può forse rintracciare, sul piano della cultura politica diffusa, un segno di quella che Formigoni definisce «una tragedia che non ha avuto la sua catarsi». Vale a dire la lunga agonia di un sistema che con la scomparsa di Moro ha forse perduto «l’ultima opportunità per una rifondazione della democrazia parlamentare in senso convergente e non contrastante alle spinte sociali di quegli anni tormentati».
(l’Unità, 21 settembre 2016)