Il professore delle riforme
Scienziato della politica di fama internazionale e polemista ferocissimo, Giovanni Sartori, nato a Firenze nel 1924 e morto a Roma all’età di novantadue anni, sarà ricordato come autore di studi tradotti in tutto il mondo su partiti e sistemi politici. Ma anche come autore, in veste di editorialista, di battute, trovate e storpiature ironiche entrate nel linguaggio di ciascuno di noi. A cominciare dall’abitudine di battezzare le leggi elettorali che non condivideva declinando alla latina il nome del loro autore (prima autorevolissima vittima: il «Mattarellum»). Abitudine che ormai, persa del tutto – o quasi – ogni connotazione satirica, è divenuta una vera e propria regola della lingua italiana.
Uno dei rari momenti in cui sembrò acquisire un ruolo politico effettivo e di primissimo piano fu al tempo della bicamerale di Massimo D’Alema, cui Sartori prestò inizialmente la collaborazione della sua competenza scientifica e della sua penna affilata. Sua era in pratica la proposta di unire legge elettorale a doppio turno e semipresidenzialismo sul modello francese, cui si arrivò dopo varie traversie che sarebbe noioso ripercorrere, e che comunque non mancarono d’incontrare, a ogni passaggio, i suoi strali (a cominciare dall’iniziale preferenza dalemiana per il cosiddetto «premierato forte»). In ogni caso, durò poco. La convergenza finale – si fa per dire – su semipresidenzialismo e «doppio turno di coalizione» (invece che di collegio) costò ai riformatori l’immediata scomunica del professor Sartori. E a onor del vero, non solo sua.
Storico anticomunista («quando c’erano i comunisti», precisava sempre in polemica con la destra, perché era anche un viscerale antiberlusconiano), si diceva addirittura che la scelta di trasferirsi in America, dove andò a insegnare a partire dal 1976, fosse dovuta alla convinzione che proprio in quell’anno – l’anno del (mancato) sorpasso – il Pci avrebbe vinto le elezioni.
Critico convinto della globalizzazione e del multiculturalismo, su questi temi ha espresso posizioni non lontane da quelle di un’altra celebre e non meno accesa fiorentina, Oriana Fallaci. Dopo l’11 settembre, intervenendo sul Corriere della Sera in sua difesa per le critiche che il famoso articolo della scrittrice dal titolo «La rabbia e l’orgoglio» aveva ricevuto da Dacia Maraini e Tiziano Terzani, il politologo così metteva in chiaro la sua posizione: «Terzani scrive che l’intolleranza di Oriana lo inquieta. A me inquieta molto di più, confesso, la cecità di chi fruisce di una “buona vita” (etico-politica) che non vede perché non sa vedere in contrasto. Per Oriana Fallaci, “se crolla l’America crolla l’Europa. Crolla l’Occidente, crolliamo noi. Blair l’ha capito…”. Evidentemente Terzani e la Maraini no. Perciò sono davvero spaventato».
La passione politica dell’intellettuale Sartori, insomma, è sempre sfuggita a ogni facile incasellatura. Dovendo proprio sforzarci, saremmo tentati di classificarlo come un liberal-conservatore radicale. La sua stessa critica al berlusconismo – nelle sue parole, un «sultanato» – muoveva da un più generale pessimismo su una democrazia minacciata dal potere persuasivo dei media e in particolare della tv, che temeva avrebbe portato a una sorta di dittatura degli incompetenti. Del resto, ancora nei primi anni duemila ricordava orgogliosamente come già ai tempi del ’68 scrivesse «che la cosiddetta rivoluzione studentesca preparava l’avvento della asinocrazia, del trionfo degli asini».
Non meno critico con Renzi, che considerava anche peggio di Berlusconi («tra un imbroglione morbido e un imbroglione aggressivo preferisco il morbido»), fu durissimo anche con la sua riforma costituzionale e con la sua legge elettorale.
E tuttavia si potrebbe dire che Sartori fu tra i principali maestri di quella schiera di tecnici e intellettuali che impressero all’inesausto «riformismo costituzionale» della Seconda Repubblica il segno del suo pensiero e delle sue convinzioni. A partire dall’idea che la leva fondamentale per raddrizzare l’Italia stesse proprio nell’ingegneria costituzionale ed elettorale, che attraverso la modifica delle regole del gioco fosse possibile (e giusto) plasmare in qualche misura l’intero sistema politico, secondo il proprio disegno. In altre parole, che quelle regole, a cominciare dalla legge elettorale, non dovessero prima di tutto rispecchiare e rappresentare la società, ma fossero lo strumento privilegiato attraverso il quale cambiarla, modernizzarla, riformarla. Di questa, che è stata a suo modo un’ideologia, forse la vera ideologia della Seconda Repubblica, la battaglia referendaria ingaggiata da Renzi – pure così invisa a Sartori – è stata forse l’ultima incarnazione. D’altra parte è caratteristica di tutti i grandi pensatori esercitare la propria influenza ben oltre i confini delle proprie convinzioni e delle proprie simpatie.
(L’Unità, 5 aprile 2017)